È la parola che compare identica in più lingue del mondo (forse). Eppure non è nemmeno una parola. E non si sa neppure bene come sia nata nella sua lingua madre, l’inglese. Ma che vi troviate in Cina, in India o in Italia, basterà dire “ok” e il significato di quell’affermazione sarà chiaro a tutti. Se poi fino a qualche tempo fa era solo un termine colloquiale, tanto nei paesi anglofoni quanto nel resto del mondo, ormai non è strano sentire l’espressione in bocca a capi di Stato e di governo, oppure trovarla tra le pagine di un romanzo da premio Nobel.



Un’etimologia bizzarra – Un destino “glorioso” per una parola che – secondo alcuni – è nata per un errore di “spelling”. Già ai primi dell’Ottocento le due lettere più famose del mondo compaiono in qualche manoscritto americano, magari lettere scritte un po’ di fretta o informali. Ma sulla carta stampata l’espressione arriva per gioco, sulle pagine di un quotidiano americano. È il 1839 in quel di Boston, nello Stato del Massachusetts. La battuta, letta in mezzo ad una frase molto lunga, non fa neanche ridere. Si parla di un personaggio che dice “o.k.” per abbreviare “all correct”, tutto giusto. Un errore di grammatica non troppo inusuale, in tempi in cui pochi sapevano leggere: “Oll korrect”, la differenza dall’originale è poca.



È l’errore dev’essere di quelli davvero comuni, se l’uso di “ok” si diffonde così in fretta. Nel 1840 in America si vota: i Democratici candidano Martin Van Buren, che è nato nella cittadina di Kinderhook. Per tutti Van Buren diventa “il vecchio Kinderhook”, Old Kinderhook insomma. E agli americani piacciono le abbreviazioni, così anche sui poster elettorali compare la scritta «vota O.K.». I rivali politici allora non perdono l’occasione. Ok? È perché non sa scrivere in inglese corretto (o “korretto”, che dir si voglia).

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We shall overcome – Non tutti sono d’accordo con questa storia. Chiedete a Pete Seeger, il grande interprete della musica popolare americana. Ci ha persino scritto una canzone, “All mixed up”: «Lo sai che la lingua che parliamo – canta Seeger – è un po’ germanica, un po’ latina, greca, celtica ed araba. I Choctaw ci hanno dato la parola “okay”». I Choctaw, cioè una tribù pellerossa. Eh sì, perché “okeh”, nella lingua dei nativi, vuol dire “è così”. E l’idea di una antica parola indiana è ben più affascinante di quella di un errore di grammatica.

 

Paese che vai, ok che trovi – Intanto però le due letterine si sono sparse per il mondo insieme alla lingua inglese. I linguisti anglosassoni, oggi, spiegano che i suoni “o” e “k” sono presenti in ogni lingua del globo, il che spiega la diffusione della particella. Sarà, ma nel passaggio da una nazione all’altra la locuzione è stata riadattata agli usi locali. Tanto che, in parecchi posti del mondo, ci si è convinti che ad inventare l’“ok” non siano stati gli americani del New England (o i pellerossa), ma i greci, piuttosto che i tedeschi o gli scozzesi.

 

Nella lingua di Aristotele “ola kala” vuol dire “tutto bene”, e anche i greci abbreviano l’espressione in “ok”. A Berlino “ohne Korrektur” sta per “nessuna correzione”, e ancora una volta l’acronimo è lo stesso. Per gli scozzesi invece “och aye” vuol dire “oh sì”, e per arrivare a “okay” non c’è neppure bisogno di abbreviazioni. Chissà che prima o poi non spunti fuori anche un’etimologia dal latino, un Cicerone in versione sbrigativa che arringa il Senato con un “omnia correcta” accorciato sbrigativamente. Intanto noi italiani ci accontentiamo di pronunciare le due lettere a modo nostro, e a volte l’“ok” si trasforma in un ben più lungo “occhei”. (Un’espressione che viene citata ‘persino’ da Wikipedia. La fonte? Il fumetto Ratman, di Leo Ortolani).

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 Ma come sei bello, ok – Di recente la Bbc ha persino dedicato un lungo servizio a giustificare l’affermazione internazionale della particella: «Ha un aspetto strano. È una parola che suona come un’abbreviazione, un acronimo. Ma la sua stranezza potrebbe essere la giustificazione per la sua popolarità. Visivamente, ok mette accando la rotondità della “o” con le linee dritte della “k”».

Eh sì, dev’esser proprio questa la ragione del successo. Rimane il dato di fatto che da espressione colloquiale, bandita dai discorsi pubblici e dai libri, ok è stato sdoganato in tutti i contesti. Per Barack Obama “ok” è una particella familiare. Ma anche dall’altro lato dell’oceano, tra i puristi britannici, David Cameron ricorre spesso alla locuzione. E nella letteratura? Chi ha letto “La strada” di Cormac McCarthy ricorderà un’infinità di dialoghi tra padre e figlio che si concludono con un “ok”. Anche questa è grande letteratura. Forse, oggi, la più grande.