Che Breivik sia uno spietato assassino è fuori discussione. Non basta l’incapacità di intendere e di volere a giustificare il duplice massacro di venerdì scorso. Quando, dopo aver fatto esplodere un’autobomba nel pieno cento di Oslo si è recato sull’isola di Utoya, dov’era in corso il raduno dei giovani laburisti; lì, a quel punto, ha iniziato a sparare. Lo ha fatto incessantemente, indisturbato, per un’ora e mezza. Il flop completo delle forze dell’ordine, l’incapacità di prevedere il suo piano, di comprendere la situazione, e di fermarlo gli ha dato tutto il tempo necessario a compiere la più efferata carneficina dalla Seconda Guerra Mondiale. Ha ucciso a sangue freddo 68 persone (in un primo tempo si pensava 85). 76 morti, quindi, complessivamente, considerando le 7 persone morte nell’esplosione e quella deceduta in seguito alle ferite. Una tragedia annunciata. Letteralmente. Nel senso che ne aveva dato ampio annuncio su internet.
Circolava da tempo un memoriale di 1500 pagine in cui esponeva al mondo la sua “dottrina”. Breivik era convinto di essere un cavaliere in lotta con le forze del male: i marxisti, gli islamici, i multiculturalisti, il partito laburista, i governanti norvegesi, ma anche il Vaticano, colpevole di alimentate il lassismo nei confronti dell’islam. Si era detto convinto che il terrorismo fosse l’unica modo per risvegliare le coscienze dei popoli contro questi nemici.
Al momento dell’arresto, avvenuto senza che opponesse resistenza alcuna, si è dichiarato placidamente colpevole. O, meglio, ha ammesso di aver effettuato i due attentati, ma ha declinato ogni addebito morale. Ha definito i suoi atti «atroci ma necessari». Sapeva, quindi, che togliere la vita fosse il male peggiore che un uomo possa compiere, e il dolore che questo provoca nei familiari e negli amici che si vedono privati di un caro. Ma ha ritenuto la sua concezione di bene e di giustizia superiore a quella degli uomini e ha ucciso.
Un abisso di male profondo e insensato. Di fronte al quale anche un gesto di pietà, risulta grottesco. Perché, pare, che un gesto di pietà ci sia stato. Due anzi. O, almeno, ne hanno avuto la forma esteriore. Non sappiamo perché Breivik lo abbia fatto, cos’abbia pensato e se un barlume di umanità abbia preso in quegli istanti il sopravvento. Sta di fatto che ha risparmiato due persone. A raccontarlo è Adrian Pracon, giovane 18enne che si trovava sull’isola al momento del massacro. Al quale, miracolosamente, è campato.
Adrian si trova in un letto d’ospedale, con una spalla a pezzi (pare, del resto, che Breivik abbia usato pallottole esplosive per no dare scampo alle vittime). Dopo esser stato colpito, aveva tentato di allontanarsi dall’isola a nuoto, usando un solo braccio. Perdeva molto sangue, il tragitto fino a riva era troppo lungo, e aveva capito che sarebbe morto. Era tornato indietro, conscio del destino che lo stesse attendendo. Che, puntuale e spietato, si è presentato una volta giunto a riva. «Mi sono trovato faccia a faccia con Breivik. L’ho guardato negli occhi, implorando che non mi uccidesse». Il criminale, gli ha voltato le spalle e se n’è andato.
Mentre Adrian si fingeva morto, gli si è avvicinato un bambino di undici anni. Gli ha detto che Breivik gli ha ucciso il padre. Breivik, a quel punto, lo ha sentito, è tornato indietro e, come con tutte le altre vittime, gli ha puntato contro il mitra. Stava per premere il grilletto, quanto il bambino, piangendo, gil ha chiesto: «Non ti sembra di averne uccisi già abbastanza? Hai ammazzato mio padre e allora risparmia almeno me che sono soltanto un bambino».
Il mostro ha avuto un attimo di tentennamento. Poi, il tentennamento, nella sua mente annebbiata dal male, si è trasformato in una convinzione. Ha votato le spalle al bimbo, e lo ha risparmiato. «Piú tardi – ha aggiunto Adrian -, quando mi hanno portato sulla terraferma, ho rivisto il bambino e gli ho strizzato l’occhio. Avevo assistito ad un miracolo».