Aleppo è stata trasformata in una grande prigione, dove due milioni di abitanti sono costretti a rimanere in casa senza la possibilità di uscire per procurarsi cibo. Inoltre manca l’acqua. La Siria, dopo dodici anni di guerra e un terremoto devastante, deve affrontare una nuova “piaga” in una situazione piena di incognite. Non si comprende il motivo per cui, spiega Firas Lutfi, guardiano francescano della fraternità e parroco della comunità latina di Damasco, ad Aleppo le forze dell’ordine non abbiano reagito all’arrivo dei jihadisti, né perché, in risposta ai ribelli, gli aerei russi abbiano bombardato un monastero. Di certo, la comunità internazionale non può rimanere indifferente di fronte a una situazione del genere. Se deve esserci una speranza per il futuro dei siriani, essa deve provenire da lì.



Padre Lutfi, com’è la situazione in Siria, non solo ad Aleppo, ma anche nel resto del Paese?

A Damasco la situazione è tranquilla. Mentre le parlo sono in macchina, in mezzo al traffico, e sto tornando al mio convento. Non c’è niente di diverso dalla vita di tutti i giorni. Qui non sta succedendo nulla di strano. Il problema è Aleppo, precipitata nel caos nel giro di poche ore a causa dell’arrivo dei jihadisti islamici. Hanno preso possesso all’improvviso dell’intera città, inclusa la periferia. Questo è ciò che sorprende: non c’è stato nemmeno un tentativo di resistenza. Si sono impossessati delle centrali di polizia, degli ospedali e persino dell’aeroporto internazionale senza colpo ferire.



L’attacco di Hayat Tahrir al Sham è stato davvero così inaspettato? C’erano segnali che potesse succedere qualcosa del genere?

Mandavano segnali di tanto in tanto, si facevano sentire con qualche azione, in particolare negli ultimi mesi. Le loro basi non erano tanto lontane da Aleppo, circa 50 chilometri. Se ne erano andati nel 2016, quando si credeva che la città fosse stata liberata definitivamente, e invece sono tornati così, in gran numero: si parla di 20mila miliziani, ben armati, ben preparati e con grandi mezzi tecnologici, non solo droni. Il problema è che hanno trovato una città in cui il governo siriano non ha manifestato la sua presenza. Questo è il segnale più strano della situazione.



Polizia ed esercito c’erano? Potevano difendersi?

Sì, ma si sono ritirati. E non si sa bene per quale motivo.

Ha fatto scalpore l’attacco dei russi al convento francescano di Aleppo. Cosa è successo? Cosa hanno raccontato i suoi confratelli?

Dentro al grande monastero c’erano due frati che stavano preparando il pane da distribuire alla popolazione, ai più poveri. Poi sono arrivati due razzi o missili, non sappiamo bene cosa, lanciati da un aereo. È scoppiato un grande incendio che ha terrorizzato i frati, che comunque sono salvi. Il convento ha subito molti danni e non è più abitabile. I frati, sotto choc, si sono trasferiti in un altro convento, sempre ad Aleppo. Non si conoscono le ragioni di questa operazione. Se proprio dovevano colpire, sarebbe stato meglio farlo prima che i jihadisti entrassero in città. Quando si colpisce una città, ci sono anche i civili, le persone disarmate. È inconcepibile colpire i civili, da qualunque parte provengano i missili. Anche il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha condannato l’attacco ai civili.

Ci sono molte incognite, ma come si può spiegare questo attacco improvviso ad Aleppo e non solo?

Non si può dire con esattezza. È il solito gioco sporco della politica, in cui magari non si capisce cosa stia accadendo, ma si sa che a pagarne il prezzo sono soprattutto le persone comuni, le donne, i bambini, gli anziani, i malati. Aleppo è ora una grande prigione, con le persone chiuse in casa, preda di paura e terrore, senza cibo né acqua. Come si fa a resistere? Le persone psicologicamente distrutte o che vogliono uscire dalla città non possono farlo, perché non ci sono percorsi sicuri per scappare. È così già da quattro giorni. Che vita è quella di più di due milioni di persone in una grande prigione? Non ha senso.

Parliamo di persone che hanno alle spalle dodici anni di guerra durissima e un terremoto devastante, messe alla prova in maniera inaudita.

Proprio così. È una ferita che si riapre senza che ci sia un’apparente ragione. Non si capisce come, dove, chi sia responsabile. E, soprattutto, chi dovrà intervenire per porre fine a tutto questo. Qualcuno di cui ci si possa fidare. Tra gli abitanti di Aleppo serpeggia un sentimento di abbattimento, sfiducia, di grande depressione.

La presenza del governo ad Aleppo è svanita davanti all’attacco, ma sta facendo qualcosa per risollevare il Paese? Come si sta muovendo?

Solo promesse. Dicono che la faranno pagare ai jihadisti. Ma chi può cacciare 20mila miliziani insediati in città? Con quale forza? Vogliono un altro bagno di sangue? Qui servono negoziati, dialogo, un’azione politica. Di certo non la forza armata.

Questa guerra arriva in un Paese ancora in grande crisi. Come vive la gente in Siria? Che speranza ha?

La gente è disperata, non ha la minima fiducia in nessuno, perché anche quando si credeva che la vita cominciasse a stabilizzarsi e che potesse germogliare qualcosa di buono, sono tornati l’incertezza e il dolore. Non c’è lavoro. Ad Aleppo, con il coprifuoco, la gente non può uscire nemmeno per procurarsi cibo. L’acqua è tagliata da giorni: figuriamoci come vivono gli innocenti e i civili. Siamo in una situazione pessima, di emergenza totale. L’ONU e la comunità internazionale non possono abbandonare i civili al loro destino.

La speranza deve venire da lì, dalla comunità internazionale?

Certamente. Qualcuno deve prendersi le proprie responsabilità, davanti alla propria coscienza e alla generazione che in questo momento sta soffrendo pene indicibili.

(Paolo Rossetti)

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