“Il potere logora chi non ce l’ha”, ma più spesso consuma chi lo mangia. Beppe Grillo avrebbe chiuso con Giuseppe Conte. Gli ha imputato di non avere “visione politica né capacità manageriali, esperienza di organizzazioni” e pratica di innovazione. Beppe dixit. Se ne sarebbe accorto adesso, avrà avuto altri “grilli” dalla primavera 2018.



Grillo ha cambiato idea sull’ex presidente del Consiglio, dopo averlo accettato a Palazzo Chigi e spinto alla guida del Movimento 5 Stelle. Perciò, lanciato in rete il post di rifiuto del professore, il comico ha dovuto meglio argomentare in video, usando il solito linguaggio volutamente confusionario: parole che rinviano a concetti valvola, a suggestioni che spiazzano l’ascoltatore e ne spostano lo sguardo altrove. Nel filmato Grillo ha ricostruito il travaglio dello statuto del nuovo Movimento, proiettato – è lo slogan – al 2050. Poi ha aggiunto di aver rinunciato al controllo della comunicazione ma di non poter lasciare il ruolo di garante, leggasi “padrone”.



La partita, forse ancora in corso, sembra ridursi a questione gerarchica: chi sotto, chi sopra? La sostanza del conflitto pare scontata: chi detta la linea, l’uno o l’altro? In campo ci sono, sussurrano tre parlamentari pentastellati, due visioni opposte: Grillo guarda alla Cina, Conte agli Usa. Ma esistono anche orizzonti diversi: Grillo vuole il primato della democrazia digitale, liquida, emotiva; Conte punta a costruire una casa dei moderati, che con Draghi a Palazzo Chigi intravedono praterie da solcare. Tra Covid e Recovery, il momento richiede competenza, concretezza e coesione, che il Movimento 5 Stelle non ha – finora – saputo esibire.



Grillo ha gli occhi bassi, rispetto al passato. Ora quasi farfuglia, sembra l’adolescente che giustifica una pulsione. È un segnale che colgono in pochi: perché l’ex comico replica la parte del messia del digitale, che da un po’ gli serve a eludere i temi economici e sociali; perché dal febbraio 2019 il Movimento 5 Stelle non si è più strutturato e dal “mai con altri” è finito al “meglio con tutti”; da ultimo in nome di una transizione ecologica che sa di calmante per una base sempre più magra e alla deriva: ideologica, identitaria, politica. Dal signoraggio di Auriti all’Europa dell’euro, dal matrimonio con Salvini al triangolo con Zingaretti e Renzi, dal Draghi della Bce a quello grillino, l’Elevato ha detto e smentito l’impossibile, accusando gli altri di non aver compreso, rifugiandosi nel suo dire tra il metaforico e il visionario.

Grillo è stanco. Di recente ha ricordato la sua nuotata dalla Calabria alla Sicilia, per caricarsi e ricuperare parte dei seguaci del 2012. Ma non l’allora fedelissimo Giancarlo Cancelleri, che ormai sta con Conte perché vorrebbe proseguire la carriera di palazzo, come altri del Movimento delle origini. Per esempio Stefano Patuanelli e Dalila Nesci, convertiti al pragmatismo (e al presenzialismo equilibrato), consci che l’era Draghi non ammette ingenuità disarmanti alla Danilo Toninelli e Alfonso Bonafede.

Grillo ha un pensiero di famiglia, che lo fece debordare contro la Procura di Tempio Pausania. Ha pure un debito di riconoscenza con l’erede Casaleggio e, azzarda un senatore fuoriuscito dal Movimento, “forse qualche pratica ancora aperta con il presidente dell’associazione Rousseau”, da poco orfana del social media manager Pietro Dettori, dimissionario ma sempre consigliere di Luigi Di Maio al ministero degli Esteri. Altri assicura che su suggerimento di un legale Grillo abbia indetto il voto per il comitato direttivo. Il succo è che se non fosse su Rousseau, la piattaforma indicata dal Garante, potrebbero esserci guerre in tribunale, quindi Grillo dovrebbe risponderne, intanto sul piano politico.

“Con Draghi per il Green Deal, ma attenzione al ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Con il Pd e Leu a garanzia dello Stato sociale”. Questa è la posizione di Grillo, giura un suo amico della prima ora, che ne legge i nuovi richiami alla meritocrazia e alla strutturazione orizzontale come tentativo di non perdere il Movimento, di non lasciarlo ai convertiti al contismo, di evitare che costoro assumano o condizionino le decisioni importanti; soprattutto riguardo al terzo mandato e alle candidature per le imminenti elezioni.

Intanto i pontieri Fico e Di Maio sono all’opera per ricucire gli strappi. Li accomuna un aspetto: sono diventati figure istituzionali, lontane dalle mille beghe interne. In particolare il secondo, che ha chiuso in soffitta la storia dei Gilet gialli e i numerosi insuccessi da capo politico e contraltare di Alessandro Di Battista, pronto a rientrare, dicono, come Nicola Morra, rimasto senza “parrocchia”, iscritto al Misto eppure presidente della bicamerale Antimafia, nel silenzio sacro di un’estate ad alta pressione.

In questo caos a 5 Stelle, in Calabria i pentastellati hanno perso la candidata della coalizione giallo-rossa alla presidenza della Regione, scelta insieme dal dem Francesco Boccia e da Conte. Maria Antonietta Ventura, sangue pugliese come i due, ha fatto “un passo di lato” dopo la seconda interdittiva antimafia nei confronti di un consorzio di imprese cui appartiene l’azienda di famiglia. Sarà dura trovare un sostituto condiviso, con il Movimento in frantumi e il Pd che se la passa forse peggio, al netto del sorriso stampato di Enrico Letta.

“Conte – si sbilancia un autorevole 5 Stelle – potrebbe anche digerire la pretesa di Grillo di voler avere l’ultima parola”. Il tempo scorre e l’autunno si avvicina. L’immobilismo e la polvere scossa dal tappeto avranno spazio ancora per settimane, se non ben oltre. Magari Grillo guarda all’elezione del successore di Sergio Mattarella, e quindi aggiorna alla sua maniera il Gattopardo: nulla deve cambiare perché nulla resti come prima”.

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