Il secondo turno di ballottaggio del voto amministrativo appare, per la politica nazionale, più significativo del primo turno, per la luce che proietta su un sistema politico nazionale profondamente in crisi, non tanto per la frammentazione politica, prodotta da una legge elettorale un po’ improvvisata, quanto dalla carenza nei partiti di valide strategie nazionali per il prossimo futuro.



La presidenza Draghi non è figlia della mancanza di una manciata di deputati e senatori per il Conte 3, bensì dell’assoluto gap culturale di tutte le forze politiche, sia di centrosinistra, sia di centrodestra, che in questo non si differenziano affatto. Gli slogan lanciati di continuo all’opinione pubblica non fanno la differenza tra i diversi partiti. Ciò che occorre è la presenza di programmi e progetti sul futuro dell’Italia, della sua società e della sua economia e l’assunzione di una posizione chiara nella politica europea e internazionale.



Draghi non ha determinato una sospensione della politica, semmai ha colmato un’assenza della politica e la reggenza dello Stato da parte sua ha ridato un minimo di collocazione all’Italia in Europa e nel mondo, mentre nessun leader politico avrebbe avuto una simile idoneità. Ha elaborato un Pnrr che contiene delle idee, ma che fa fatica a passare alla realizzazione concreta. Siamo così in ritardo nell’attuazione delle riforme che dobbiamo persino frenare l’Ue nel darci i soldi del Next Generation Eu.

Se un invito si può fare ai partiti è quello a riflettere, studiare ed elaborare, possibilmente fuori dagli schemi del ‘900, con una visione europea e internazionale, senza agitare le contrapposizioni epocali del passato, senza nostalgie, tenendo conto che anche la retorica del sovranismo è fuori luogo. Infatti, l’idea di una sovranità statale assoluta ormai non esiste, operando di fatto le sovranità degli Stati in modo aperto nell’interdipendenza europea e internazionale.



Lo Stato del secolo scorso è ormai morto e non può più rivivere e la ricomposizione dell’unità del politico è destinata a seguire vie nuove che i nostri partiti non hanno ancora intercettato.

Eppure i risultati dei ballottaggi ci trasmettono una diversità tra le forze politiche che potrà anche pesare sulle prossime vicende governative e politiche comprese le elezioni del Presidente della Repubblica.

Indubbiamente il Pd ha portato a casa un risultato migliore di quello della Lega e di FdI, nonostante tutti questi partiti negli ultimi dieci anni non abbiano mostrato che limitate capacità di governo e di riforma dell’ordinamento: durante la crisi economico-finanziaria il governo Berlusconi fu fatto fuori, a metà del 2011, per l’incapacità di gestire il debito pubblico; dopo il disastroso governo Monti e le elezioni del 2013, dove il M5s divenne il primo partito, il governo Renzi si imbarcò in riforme costituzionali e legislative rovinose, volte a ridurre la democrazia e a colpire le autonomie territoriali, con guasti che perdurano nel presente; i due governi Conte, frutto di un sistema di alleanze ormai aperto, non hanno avuto la capacità di dare al Paese un progetto per il futuro, ma si sono limitati a programmi in cui ogni forza politica ha messo ciò che voleva.

Ovviamente, vi sono diverse ragioni che possono giustificare il risultato elettorale. Il centrodestra vive una crisi con divisioni interne alquanto profonde, una parte insegue parole d’ordine non sentite neppure dai suoi elettori, come nel caso dei vaccini e del green pass. Agita il pericolo degli sbarchi e la bandiera della sovranità contro l’Europa, proprio nel momento in cui l’Italia conta in Europa e l’Europa viene incontro all’Italia. Sul piano operativo interno ha individuato le candidature con grande ritardo e senza crederci granché. I candidati più che civici sono risultati sconosciuti, un po’ raccogliticci e senza un afflato sociale alle spalle; ma anche dove ha presentato candidati in grado di esprimere un certo radicamento come a Torino e a Latina, non è riuscito lo stesso a lanciare un’offerta politica nuova aderente alle attuali condizioni economiche e sociali, senza considerare poi certe roccaforti di un tempo ormai perdute come Varese.

Questo non vuol dire che il Pd sia stato migliore. L’assenza di idee proprie lo ha portato a mettersi dalla parte della linea del Governo Draghi, soprattutto per vaccini e green pass, assumendo la posizione di protettore della salute della popolazione contro la pandemia. E i suoi candidati in questa tornata amministrativa non sono apparsi particolarmente brillanti; anzi, si è riproposta sempre la stessa tipologia di candidato, alquanto opaco, privo di appeal e con un curriculum prettamente politico, attingendo alle retrovie di quegli apparati che, anche dopo il crollo dei partiti di massa, ancora continuano a fornire quadri intermedi.

Se il successo ha arriso a questi ultimi, non è dipeso dal fatto che erano oggettivamente migliori, bensì per una abilità politica che solo il Pd possiede ed è in grado di adoperare e che nel tempo lo ha portato al governo triturando gli alleati. Infatti, pur nella frammentazione della politica, il Pd è capace di esercitare una “egemonia” su un’area che non riesce a trovare espressioni autonome, come il M5s, e a formulare una offerta politica indipendente, come Italia Viva e Azione. Il caso di Roma è emblematico: senza alcun apparentamento il candidato del Pd ha avuto l’endorsement di Calenda e quello dell’ex-premier Conte, così da ricevere una buona parte dei voti di Azione e M5s, sufficienti a determinare il successo elettorale, tanto più che – come si dice – l’elettore di centrodestra è poco propenso a tornare all’urna nel ballottaggio.

A questo punto, dopo il risultato delle amministrative, al segretario Letta non resta altro da fare che aspettare il maturare dei prossimi eventi, continuando a restare nel cono d’ombra di Draghi; e più Salvini e Meloni attaccheranno o si dissoceranno dal Presidente del Consiglio, evidenziando le loro insofferenze, più perderanno consenso. Ci penseranno poi certi media a rendere ancora più pesante e critica la loro posizione politica.

Quello delineato non è un destino ineluttabile, ma uno scenario molto probabile, rispetto al quale si può dire che all’Italia, come negli ultimi venticinque anni, continua a mancare una strategia politica nazionale e, se l’offerta politica non si sarà modificata prima che Draghi vada via, accadrà che a decidere tutto saranno gli attuali poteri cui i partiti politici in un modo o nell’altro si subordinano, ponendo fuori gioco la nostra democrazia.

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