“Lo conosco da parecchi anni e credo sarebbe adattissimo. È stato presidente della commissione Bilancio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e ministro dello Sviluppo economico”.

Così Daniele Franco, ministro uscente dell’Economia, ha salutato il suo successore, Giancarlo Giorgetti, militante di lungo corso della Lega. Al di là di tattiche e strategie c’è un fil rouge che accomuna l’azione dei due titolari di via XX settembre. “Con lui – ha aggiunto Franco – abbiamo lavorato fianco a fianco in questi venti mesi. Abbiamo in comune l’idea che lo sviluppo economico italiano dipenda da quanto accade nel sistema produttivo, in primo luogo nella manifattura e nei servizi, che questi settori siano il cuore della nostra capacità di creare reddito e che quindi debbano essere al centro della politica economica”.



Non sono parole banali. Da sempre, il rapporto tra Roma e Bruxelles corre sui binari dello spread, ovvero sullo scudo che l’appartenenza alla Ue garantisce al Tesoro italiano. Ovvero, ancor più spesso, sui vincoli che il Bel Paese deve sopportare per garantirsi l’iscrizione al club europeo. La dialettica con le istituzioni Ue corre sulla disciplina di bilancio, tra lettere e precisazioni sui vincoli di bilancio. Una navigazione sotto la lente dello spread, la misura del rispetto di una linea di condotta costantemente monitorata dai famigerati mercati pronti a punire le deviazioni, specie quelle alla luce del famigerato sovranismo.



In questa cornice, la sostenibilità della finanza pubblica è diventata in pratica l’unica bussola in base a cui valutare la qualità dell’impegno europeo di un Governo, ma Daniele Franco che, in qualità di ministro ma ancor prima come sentinella del debito in Banca d’Italia, ha da sempre combattuto i vari “scostamenti” cari a Governo e Parlamento, sposta il tiro su manifattura e servizi: la sostenibilità del sistema Italia, ci ricorda, passa dalla capacità di creare reddito. Ma per farlo non è sufficiente tagliare spese o avviare “spending review”. È necessario, semmai, difendere la seconda manifattura d’Europa, fortemente inserita all’interno dell’economia continentale, dal rischio declino.



In questo senso ben venga, par di capire, una forte dose di sovranismo purché declinato all’interno del sistema Europa. Solo in questa chiave l’Italia può pensare al proprio futuro. Vale per l’industria dell’auto, fortemente collegata a Parigi (vedi Stellantis), ma anche al ciclo dell’auto tedesca. Non ha senso una guerra fratricida con i partner quando si deve fronteggiare l’offensiva della legislazione Usa, che prevede vantaggi rilevanti per le vetture che abbiano una quota di componenti made in Usa. O l’avanzata cinese nell’auto elettrica, forte del controllo di materie prime (grazie spesso alla ritirata degli europei dall’Africa) e di investimenti resi possibili proprio dagli europei. Lo stesso vale, altro esempio, per i semiconduttori, materia prima indispensabile che arriva con il contagocce alle aziende europee, come Stellantis.

L’Europa, sovranista o meno, ha da colmare un enorme gap rispetto all’Asia. Certo, occorrerà superare il tabù degli aiuti di Stato, osteggiati dai Paesi nordici. È velleitario, dice la signora Vestager, pensare di raggiungere Asia e Usa in questi settori. Si rischia di gettare dalla finestra enormi risorse pubbliche per avere prodotti più cari e meno efficienti da imporre ai consumatori. Una filosofia adeguata ai tempi della globalizzazione, quando l’efficienza è il metro principale se non l’unico per l’allocazione delle risorse. Una strategia pericolosa, se non suicida, in tempi complicati sul piano geopolitico, quando indipendenza e autosufficienza sono atout indispensabili.

Una dose robusta di sovranismo, insomma, sembra necessaria per ridare appeal al cocktail europeo. E l’Italia, in chiave Meloni, può svolgere un ruolo rilevante, tenendo la barra dritta a difesa delle nostre competenze e della nostra cultura. Purché Giorgetti sappia dire tanti no, sia a Bruxelles che, soprattutto, un casa propria: il vero nemico sarà il fuoco amico.

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