Di anno in anno, ad un ritmo impressionante, la scena internazionale peggiora, galoppando verso un caos che ci lascia sgomenti, perché scopre le carte del vuoto di leadership mondiale, di idee, soluzioni e volontà, gambe politiche su cui far marciare progetti e soluzioni. Sembra, in una parola, che le grandi potenze siano arrivate all’appuntamento con i cambiamenti epocali a corto di idee.
Davanti a noi, per limitarci a un orizzonte veteroeuropeo, il numero di guerre sta aumentando a un ritmo incontrollabile. Non bastava l’Ucraina, la crisi armena, l’equilibrio precario balcanico. Il 7 ottobre, data simbolica che andrà ad aggiungersi all’11 settembre a segnare la lunga crisi del Medio oriente, si è riaperta in modo esplosivo la mai sopita questione israelo-palestinese, che si è allargata addirittura alla penisola arabica, grazie al lancio dei missili contro Israele e al blocco delle navi condotto dagli Houthi, milizia sciita yemenita, altro anello proxy amico di Teheran. Milizie che utilizzano missili balistici che costano milioni e gli economici droni. E così, per la terza volta in pochi anni dopo l’emergenza Covid e la guerra in Ucraina, le catene di approvvigionamento globali sono state messe sotto pressione.
Guerre che mostrano un paradosso di difficile soluzione. Globalizzazione che ormai comprende tutto il mondo, capitalismo come unica realtà economico sociale che tutto compenetra, digerendo tutte le ideologie e riducendole in poltiglia insapore. E allo stesso tempo competizione feroce tra Stati per le risorse, per il controllo del territorio per l’influenza, per il potere. Stati sempre più disposti ad impugnare le armi per risolvere le controversie. Non siamo davanti a uno scontro tra blocchi, come nella Guerra fredda. Non c’è più il comunismo contro il capitalismo. Non c’è niente al posto dello scontro tra ideologie del Novecento, non una nuova contrapposizione Ovest contro Est, o tra Sud del mondo contro l’opulento Nord, o tra Occidente allargato e resto del mondo. Categorie manichee, dicotomie semplici, fotografie in bianco e nero non servono a spiegare nulla se non a falsificare la realtà.
Davanti a noi vi è la Turchia, alleato Nato, ma che gioca da sola in Medio oriente e nei confronti della Russia. L’Arabia, amica degli Stati Uniti, che però accetta di buon grado la mediazione cinese. L’India, non certo amica della Cina, o i Paesi del Golfo, tutti Stati che cercano strade di interesse nazionale non sempre allineati con Washington. Siamo insomma in un mondo in trasformazione, dove la confusione regna sovrana, mondo di alleanze à la carte, Stati multi-allineati, dove si costruiscono alleanze volta per volta. Non stupisce che tutte le istituzioni e organismi che hanno caratterizzato la governance globale siano in crisi. Esempio lampante l’Onu, ormai afona e impotente, compreso quella Corte internazionale di giustizia chiamata a esprimersi su un reato francamente risibile.
Davanti a uno scenario di frammentazione globale, il peso di una parvenza di mantenimento delle regole internazionali come il diritto di navigazione, la libertà dei mari, rimane ancora una volta sulle spalle delle potenze blu, una volta avremmo detto talassocratiche anglosassoni. In primo luogo Stati Uniti eredi di Nelson. Ma attenzione, questa volta è diverso, perché a fianco della marina americana non c’è più una coalizione internazionale, che vide anche il sostegno della Russia, come nel caso della guerra ai pirati somali quindici anni fa. E poco sta facendo l’Unione Europea, si veda la confusione italiana nel caso Houthi.
Stati Uniti dunque soli. Niall Ferguson, in un articolo del 31 dicembre su Bloomberg, rilanciava la tesi espressa nel 2003 in Colossus: The Price of American Empire, ma con una nota che spiega meglio di tanti discorsi la politica estera statunitense. Blind Colossus: The Rise and Fall of the American Empire, così si doveva intitolare quel libro, cioè gli USA come un gigante cieco che cammina sull’orlo del baratro. Questa l’argomentazione. Tutti gli imperi fanno cose orribili, anche gli Stati Uniti ne hanno fatte, ma non è per questo che falliscono. E adduceva, riprendendoli a sostegno della sua tesi, tre motivi. Il primo, il costo economico enorme per mantenere un impero era impossibile per gli Stati Uniti a causa del deficit fiscale insostenibile. In secondo luogo, gli USA non potevano svolgere nessun ruolo veramente imperiale a causa del deficit di risorse umane, sia in termini di numeri che di mentalità, da destinare al governo del globo – si veda il fallimento di tutte le politiche americane nei Paesi nel sud del mondo, compreso il disastro del progetto neocon di ridisegnare il Medio oriente dopo l’11 settembre. In ultimo, la disattenzione dei cittadini americani, e quindi dell’elettorato, alle cose del mondo.
Se questi motivi erano validi venti anni fa, adesso per lo storico americano lo sono ancor di più. Mentre il debito federale ammontava, agli inizi del 2000, al 59% del Pil, l’anno scorso è passato al 120% e l’esercito USA adesso ha solo 452mila uomini sotto le armi, il più piccolo numero dal 1940. E l’atteggiamento del Senato americano verso l’Ucraina non fa altro che confermare il pessimismo di Ferguson. Non certo declino, ma impossibilità per Washington di determinare un ordine mondiale in nome della pax americana.
Sullo sfondo si muove la Cina, che a passi lenti ma continui si sta ritagliando un ruolo anche politico diplomatico, si veda la mediazione tra Iran e Arabia, e i segnali che sta lanciando, ad esempio alla conferenza di Doha, nel proporsi, anche se in modo cauto, come mediatore del conflitto israelo-palestinese forte di tre argomenti, come ha sottolineato Wang Hueiyao, direttore dell’autorevole Centro per la Cina e la Globalizzazione. La totale estraneità di Pechino a quello scontro, il passato di vittima del colonialismo occidentale, il peso dei rapporti economici nell’area. La Cina è infatti il partner commerciale più importante per i Paesi arabi e, dopo gli Stati Uniti, il partner commerciale più importante per Israele. Difficile predire il futuro; l’unica speranza è che a nessuna potenza è utile che la macchina – leggi l’economia e il commercio mondiale – si inceppi.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.