Il traffico commerciale nel Mar Rosso bloccato dai missili degli Houthi. I ribelli yemeniti, finanziati dall’Iran, con le loro azioni militari hanno scoraggiato i più grossi armatori che con le loro navi portano merci soprattutto verso l’Europa. Una intraprendenza ufficialmente motivata dal sostegno alla lotta del popolo palestinese, ma che in realtà ha poco a che fare con le vicende di Gaza, anche se complica il quadro del Medio Oriente già reso incerto dai violenti attacchi israeliani nella Striscia. Agli Houthi interessa, infatti, far pressione sull’Arabia Saudita, storico avversario nella guerra dello Yemen, per ottenere qualcosa in sede di trattative di pace che dovrebbero mettere fine al conflitto che ha infiammato negli ultimi anni Sanaa e tutto il territorio del Paese.
Gli Usa stanno spostato le loro navi, giunte nel Mediterraneo orientale per sostenere Israele, per cercare di bloccare gli attacchi Houthi. Non è ancora un allargamento della guerra, spiega Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa per il Cesi, il Centri studi internazionali, ma certo un elemento che non contribuisce ad alleggerire la tensione. Il nodo cruciale per un eventuale allargamento del conflitto israelo-palestinese resta la Cisgiordania: se gli attacchi dei coloni alla popolazione locale e l’intervento dell’Idf continueranno come ora, il rischio che la situazione esploda diventerà sempre più concreto, spingendo i residenti in Giordania e aumentando la possibilità di coinvolgimento di altri Paesi.
Gli Houthi rivendicano l’attacco a una nave norvegese e continuano le loro azioni militari nel mar Rosso, gli Usa spostano le loro portaerei per contrastarli: la guerra si è allargata?
Più che di allargamento parlerei di una ulteriore regionalizzazione del conflitto: la crisi fra Israele e Palestina ha prodotto degli effetti a cascata su tutta l’area. Il caso più eclatante è quello del Mar Rosso, ma non è un ampliamento della guerra. La crisi ha delle dinamiche che stanno influenzando altre dinamiche ancora: quello del commercio internazionale e dell’energia sono uno di questi spin off. Da Bab-el-Mandeb, il choke point che permette l’accesso verso il Mar Rosso e il canale di Suez e dall’altra parte, verso Mar Arabico, l’Oceano Indiano passa circa il 12% del traffico mondiale, il 10% di quello energetico.
Ma quali sono le ragioni che spingono gli Houthi a colpire le navi mercantili? Ufficialmente sono azioni contro Israele, a sostegno della causa palestinese?
Quello che sta succedendo non è direttamente legato alla crisi di Gaza, ma una sua evoluzione: gli Houthi stanno esercitando una pressione sui sauditi (che sostengono i loro nemici nello Yemen, nda) e sugli americani in un’ottica più legata al conflitto yemenita. Gli annunci per cui le navi vengono attaccate per solidarietà al popolo palestinese sono retorica che viene utilizzata per giustificare questo tipo di situazione.
L’obiettivo vero, allora, qual è?
Cercare di ottenere maggiori vantaggi nella dinamica del processo di pace in stallo in Yemen, usando l’argomento anti-israeliano per esercitare pressione su Usa e Paesi del Golfo. La crisi yemenita è quasi congelata, ma dal punto di vista marittimo si continua a combattere: quello che sta succedendo ora nel Mar Rosso con una grossa eco in realtà stava succedendo già qualche mese fa, non con attacchi alle navi ma con operazioni marittime sulla costa yemenita. Una situazione che si è evoluta anche in attacchi internazionali alle navi commerciali.
Ora però gli americani stanno portando in zona le loro portaerei e ci saranno delle esercitazioni tra Francia, Gran Bretagna e Italia. Elementi che cambiano lo scenario?
Sono cose che avvenivano già prima e ora c’è un motivo in più per rinnovarle. Le navi non necessariamente andranno lì a sparare, se dovesse precipitare la situazione allora si ripenserà anche alla missione militare in loco. Tutti, comunque, sono attenti al fatto che ogni singola azione possa causare danni peggiori. Gli americani hanno voluto mandare un segnale: “State attenti, siamo pronti a intervenire”. Il pattugliamento, la messa in sicurezza di quella parte di mare è fondamentale per il commercio globale.
Potrebbe esserci un coinvolgimento anche di navi militari italiane?
C’è una missione europea, più che altro nella parte di Hormuz, di cui fa parte anche l’Italia. Se la situazione dovesse prendere un’altra piega allora si potrà ipotizzare un coinvolgimento non soltanto italiano, ma anche europeo. E allora bisognerà vedere quali saranno le regole di ingaggio e gli obiettivi. A oggi è solo speculazione.
Gli iraniani, che sostengono gli Houthi, c’entrano qualcosa nella strategia che i loro alleati hanno messo in atto nel Mar Rosso?
Hanno una convergenza di interessi con gli Houthi: siamo in una situazione che potrebbe far gioco all’Iran, mettendo pressione all’Arabia Saudita, ma che potrebbe mettere in pericolo anche il commercio iraniano con l’estero, anche se diretto più a Est che a Ovest. A lungo andare potrebbero essere danneggiati anche gli iraniani.
Intanto grossi operatori commerciali come Maersk, Hapag-Lloyd e Msc hanno interrotto i loro viaggi: qual è il vero danno per l’economia occidentale e per quella europea in particolare?
Msc, ad esempio, ha deciso di cambiare rotta per le sue navi. Significa circumnavigare, passare dal Capo di Buona Speranza in Sudafrica e risalire dall’Atlantico: undici giorni di navigazione in più e costi in aumento.
Se dovesse permanere questa situazione per noi significherebbe un aumento della benzina e dell’inflazione?
Sì, soprattutto questo vale per le economie europee, che sono fortemente dipendenti dai traffici euroasiatici. Questa tratta di mare è fondamentale da questo punto di vista.
Oltre al Mar Rosso ci sono anche altre zone dove rimane il rischio concreto di un allargamento del conflitto. Quali sono le situazioni più critiche da questo punto di vista?
I teatri più pericolosi sono sempre la Cisgiordania e il confine nord di Israele con il Libano. Le condizioni odierne farebbero pensare a una situazione ancora gestibile: nella West Bank gli israeliani fanno un po’ quello che vogliono e il fronte libanese resta teso, anche se le parti cercano di tenere sotto controllo il livello di escalation. È un po’ un gioco degli scacchi.
Come mai la Cisgiordania resta fondamentale per capire gli sviluppi della guerra?
Se succede qualcosa lì la situazione cambia per i Paesi vicini e a cascata finirebbe per interessare anche altre nazioni. Se dovesse verificarsi una forte fuoriuscita di palestinesi dalla Cisgiordania per andare in Giordania o nei Paesi vicini anche la guerra potrebbe prendere un’altra piega. Ci sono violenze tra coloni israeliani e milizie palestinesi e se il quadro dovesse degenerare, con l’ampliamento delle colonie e ulteriori forzature nei confronti dei palestinesi, cioè se tutto quello che stiamo già vedendo dovesse continuare e andare oltre, il controllo della situazione sarebbe sempre più faticoso. Proseguendo su questa strada si rischia che qualcosa succeda per forza.
Ma se Israele intende continuare con le operazioni militari perché si torna a parlare di tregua?
Perché Tel Aviv ha bisogno di dare risposte alla sua opinione pubblica, fortemente critica rispetto all’operato del governo e alle operazioni militari condotte finora soprattutto a Gaza: l’esecutivo non mostra empatia per la sorte degli ostaggi, una tregua potrebbe venire incontro a questa esigenza. Ma bisogna vedere quale sia la volontà politica da entrambe le parti.
È da inguaribili ottimisti pensare che una tregua potrebbe aprire a un cessate il fuoco definitivo? I colloqui tra Hamas, Cia e Mossad che sarebbero in corso a cosa puntano?
Israele non ha detto che la sua operazione militare finirà qui. Tutto andrà avanti fino a che lo riterranno opportuno. A meno che non ci sia una grande pressione internazionale, con gli Usa che dovessero imporre un cessate il fuoco, ma non vedo quest’ultima come un’opzione possibile.
(Paolo Rossetti)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI