Ha sbattuto la porta in faccia agli Usa sull’ipotesi dei due Stati, garantendo che accetterà un accordo solo se Israele gestirà la sicurezza di Gaza. Poi si è rivolto all’Iran, promettendo che non diventerà una potenza nucleare. Le ultime parole di Netanyahu non hanno fatto altro che confermare l’attuale scenario di guerra, senza aprire a possibili trattative di pace. Il primo ministro sa, come spiega Toni Capuozzo, giornalista e inviato di guerra, che resterà al suo posto fino a che continuerà la situazione di emergenza, e che comunque non potrà accettare di sedersi a un tavolo a discutere prima di aver eliminato Hamas. Quindi, mentre spera che Trump, con il quale ha sicuramente più feeling che con Biden, vinca le elezioni, continua lancia in resta a sostenere le operazioni militari. Sconfiggere in tutto e per tutto Hamas, però, non è semplice, e Israele non ha un piano B. Rischia, insomma, di uscire sconfitto senza raggiungere il suo obiettivo primario.
Qual è il senso delle ultime prese di posizione di Netanyahu sulle prospettive della guerra?
Ha capito che resta in sella fino a quando rimane aperta una situazione conflittuale di questo tipo. Un qualsiasi accomodamento o negoziato che inizi prima che Hamas sia cancellata e che deluda quella parte delle forze di governo ostile alla soluzione dei due popoli in due Stati porterebbe a un accordo che sarebbe la sua fine. Oltretutto penso che sia galvanizzato, o illuso, dalla partenza a razzo di Trump nelle primarie repubblicane: intravvede la possibilità che a fine anno alla Casa Bianca ci sia un inquilino con il quale ha rapporti migliori che con Biden. Trump ha avviato gli accordi di Abramo, ma ha anche spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.
Inoltre Israele non vuole delegare a nessuno il controllo del territorio di Gaza.
Bisogna tenere conto anche di un’altra cosa: la proposta di attivazione di una forza multinazionale per la Striscia, immagino composta da qualche Paese musulmano o arabo moderato, come potrebbe essere la Turchia, e con Paesi Nato, magari come l’Italia, deve fare i conti con il precedente del contingente in Libano, che si è rivelato totalmente ininfluente nel bloccare le minacce di Hezbollah. Di fronte alla sua opinione pubblica, quindi, Netanyahu usa un argomento forte: “Gli unici che possono garantire sicurezza a Gaza siamo noi”.
Gli altri partiti di governo e l’opinione pubblica lo seguono su questo?
Israele è un Paese in stato di guerra. Noi fatichiamo a capire l’impatto del 7 ottobre. Abbiamo accettato per vent’anni la guerra al terrorismo voluta da Bush, ma la risposta all’11 settembre quante vittime civili ha provocato? Ognuno di noi è stato colpito dal vedere l’impensabile, cioè dagli aerei che si conficcavano nel World Trade Center, per questo abbiamo accettato di tutto, compreso quell’isola cupa fuori dal diritto internazionale che era Guantanamo. A Israele dopo tre mesi stiamo già facendo i conti, ma l’impatto dell’attacco di Hamas agli occhi degli israeliani è stato più forte dell’11 settembre: il 7 ottobre si sono visti i miliziani entrare in casa e violare le loro famiglie. Non lo possiamo dimenticare. A Netanyahu viene imputato di essersi fatto trovare impreparato, glielo hanno rinfacciato anche gli ostaggi che sono stati liberati, ripetendo che non sono stati difesi.
Netanyahu ha anche detto che non potrà lasciare che l’Iran completi il suo programma nucleare: già ora cerca di destabilizzare la regione, figurarsi cosa potrà fare se avrà anche la bomba atomica. Vuol dire che Tel Aviv ha messo in conto la possibilità di uno scontro frontale con Teheran?
L’Iran fa una guerra di milizie. Muove quelle che sostiene e che arma. E colpisce le milizie. I missili lanciati in questi giorni hanno preso di mira gruppi fondamentalistici a Idlib, in Siria, quel che resta dello Stato islamico. Idlib vuol dire 1.300 chilometri dall’Iran e questo è un campanello d’allarme per Tel Aviv: basta usare il compasso sulla cartina e si capisce che è la stessa distanza che separa gli iraniani da Israele.
L’Iran, a quanto sembra, sta andando avanti a spron battuto con il suo programma di arricchimento dell’uranio. Se dovesse concluderlo, come potrebbero reagire gli israeliani?
Se da questa crisi tremenda si uscisse con un tavolo negoziale che punta a realizzare due Stati, portando un po’ di quiete anche nel mondo islamico moderato, Netanyahu sarebbe finito. Sta in sella fino a quando ci vuole la corazza, è un capitano di ventura, per lui più la situazione si complica più protrae la sua leadership. Ha timore di ogni rasserenamento, quindi enfatizzare che l’Iran, con la scusa ridicola di procurarsi energia pulita in un Paese che è un forziere di petrolio, continui nel programma di arricchimento dell’uranio, dipende dal fatto che ha bisogno di guerra.
Ma se Teheran fosse sul punto di concludere il programma nucleare gli israeliani interverrebbero o no per impedirglielo?
Se parliamo di incursioni di cacciabombardieri queste cose ci sono già state e potrebbero esserci di nuovo. Credo però che l’Iran, in questo momento, sia molto attento: nei giorni scorsi poteva colpire chiunque altro, invece ha colpito un gruppo estremista in Baluchistan, che è in Pakistan, ma si tratta di una formazione invisa ai pakistani, che a loro volta hanno colpito in Iran gruppi invisi a Teheran. Insomma, rispondendo all’attentato vicino alla tomba del generale Soleimani non ha colpito il cuore del potere avversario, ma delle milizie. È molto attento a istigare, ad alzare la tensione. Già è una minaccia permanente nello stretto di Hormuz, adesso con gli Houthi lo è pure nel Mar Rosso. Il potere contrattuale degli iraniani cresce senza combattere in prima persona.
Negli ultimi tempi nel governo Netanyahu ci sono state divergenze, anche con il ministro della Difesa Gallant: l’esecutivo resta comunque unito? Se il premier non si scosta dalla sua linea politica per raggiungere la pace bisognerà rimuovere lui?
Netanyahu sarà messo da parte comunque, dal voto degli israeliani. Credo che le divisioni siano reali. Israele ha fatto lo stesso sbaglio di Putin e dell’Europa: non avere un piano B. Il capo del Cremlino se lo è trovato fra le mani: puntava a cambiare la leadership di Kiev e poi ha virato su un piano di riserva, trincerandosi e cercando di salvare quello che poteva essere salvato, quindi un Donbass allargato e la Crimea. L’Europa ha puntato tutto sulla controffensiva ucraina, fallita quella non sa cosa fare: non può andare a trattare in queste condizioni dopo aver definito quella ucraina la trincea della democrazia.
Gli israeliani hanno fatto la stessa cosa?
Anche Netanyahu, accompagnato dai sentimenti del Paese intero, ha risposto all’attacco di Hamas senza avere un piano B. Non ha detto “Se non riusciamo a uccidere Yaya Sinwar e Mohamed Deif (capi di Hamas, nda) possiamo accontentarci di svuotare gli arsenali di Hamas”. Non c’è una exit strategy, se non la vittoria, ma non può sognarsi che il nemico esca dai tunnel con la bandiera bianca arrendendosi. E ogni giorno in più di guerra è un giorno in più per Hamas e non per Netanyahu. Se fai il tronfio puntando alla vittoria finale e poi questa non arriva, la sconfitta può essere cocente.
(Paolo Rossetti)
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