Caro direttore,
era purtroppo prevedibile che il terribile femminicidio di Giulia Cecchettin sarebbe stato preda pronta della strumentalizzazione politica. Quindi, anzitutto, della para-teoria della “civiltà patriarcale”: scagliata peraltro da una sinistra ancora parecchio maschilista (sia nel Pd che in M5s) contro la prima premier donna in Italia, che ha appena deciso di separarsi dal padre di sua figlia per comportamenti sessisti. Ma visibile sottotraccia è anche il tentativo di collegare il femminicidio di Vigonovo al contesto sociopolitico veneto, puntualmente spregiato a prescindere come “leghista”.



Tutto questo avviene pochi giorni dopo che il governo ha varato per decreto misure contro la microcriminalità; e quelli che oggi chiamano a gran voce le piazze per una non meglio precisata “legge contro il femminicidio” sono gli stessi che hanno appena accusato il centrodestra di svolta autoritaria, di attentato alle libertà individuali, perfino di accanimento contro non meglio precisate “fasce socialmente deboli”. Ma le urla inascoltate (sembra) della povera Giulia non sono state diverse da quelle di decine di donne o uomini, giovani o anziani, aggrediti per strada da una baby gang, spesso in una via affollata ma indifferente (ad esempio nella Milano odierna, da 12 anni amministrata dal centrosinistra).



Il Pd vuole dunque riempire nuovamente le piazze di “sardine in scarpe rosse”: facendo del contrasto ai fatti di violenza contro le donne la priorità delle priorità per il Paese (come è avvenuto, ad esempio, nella campagna elettorale del 2022 per il disegno di legge contro l’omotransfobia). È l’intento evidente che ha spinto la leader “dem” Elly Schlein a telefonare alla premier Meloni mentre questa era impegnata a Berlino in un vertice intergovernativo con il cancelliere Olaf Scholz e contemporaneamente in un G20 straordinario.

Non risulta che Schlein – in teoria premier-ombra dell’opposizione – abbia chiesto alla premier (vera) notizie sul confronto decisivo con la Germania e la Commissione Ue su negoziato del Patto di stabilità, su inflazione e recessione, sulle politiche energetiche o su quelle sui migranti. Oppure sulla posizione corrente dell’Italia e degli altri grandi Paesi del pianeta sulle crisi a Gaza e in Ucraina. Solo una “call opportunity” per qualche titolo d’occasione in Italia, di prima campagna elettorale in vista delle europee di giugno.



La leader del Pd è stata, quattro anni fa, beneficiaria diretta di una prima campagna “contro l’odio”. Era la candidata vicepresidente della Regione Emilia-Romagna e – per il centrosinistra – era concreto il rischio di perdere la propria regione-bastione, dopo la sconfitta riportata a fine ottobre 2019 in Umbria. Nell’arco di ore venne imbastita un’operazione politico-mediatica, peraltro su fake news: quelle riguardanti un presunto bombardamento di mail antisemite contro la senatrice a vita Liliana Segre. Tanto bastò comunque perché la senatrice – testimone autentica di una Shoah che non potrà mai essere negata – venisse coinvolta come portabandiera di una commissione parlamentare d’inchiesta su tutti i fenomeni di odio.

L’opposizione di centrodestra non si oppose benché fosse evidente l’origine strumentale dell’iniziativa. Pochi mesi prima, Segre – con un passo irrituale per un senatore a vita – aveva motivato il suo voto di fiducia al “ribaltone” che aveva instaurato una nuova maggioranza Pd-M5s con un discorso in cui additava di fatto la Lega, appena espulsa dal governo, come facente parte di un ambito politico-culturale vicino al nazismo.

La “commissione Segre” avrebbe dovuto produrre un disegno di legge contro tutti gli odi: anzitutto quello antisemita, mai debellato in Europa, come emerge drammaticamente anche in questi giorni. Pur con l’attenuante della pandemia la commissione ha invece chiuso i battenti in sordina con la scorsa legislatura, con una relazione finale pressoché ignorata da tutti: a cominciare dal Pd.

Non ha preso forma neppure un provvedimento specifico contro l’antisemitismo/antisionismo, ad esempio sulla falsariga di quello varato da Donald Trump negli Usa dopo una catena di attentati e poi invece raffreddato dall’amministrazione Biden. Forse consapevole – il presidente americano in carica – di quanto l’avversione antisionista (e quindi antisemita) covi sempre di più nella sinistra politically correct, cioè nei campus e media di riferimento “dem”. E in Italia, non per caso, è il Pd di Schlein – figlia di un politologo israelita vicino ai “dem” radicali d’Oltreoceano – ad apparire tuttora indeciso fra Israele e Hamas (in alcuni settori perfino fra Kiev e il Cremlino), non la presidente del Consiglio.

Nel frattempo gli ultrà anti-odio di quattro anni fa sono tornati in azione convocando l’ennesimo girotondo al Circo Massimo. Sempre con l’obiettivo – intriso di populismo di sinistra – di “riempire le piazze per fermare le destre”, quando le urne rimangono invece, non da oggi, pericolosamente vuote. Per questo sembra oltremodo significativo – e apprezzabile – il silenzio scelto, oggi, della senatrice Segre: rotto soltanto dalla decisiva riaffermazione del proprio essere “persona di pace”, in questi giorni “senza risposta” su quello che sta accadendo a Gaza.

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