Paradossalmente, ma neanche tanto, la vita della gente comune, nelle zone non ancora colpite da razzi o dalle incursioni, è la stessa per israeliani e palestinesi: paura di finire nel cuore della guerra, di sentire (e vedere) improvvisamente un missile sibilare sulla testa oppure un soldato o un miliziano entrare in casa. E anche il desiderio che anima tutti è simile: che questa guerra appena iniziata finisca il prima possibile, che si torni quanto prima a una situazione di pace almeno apparente, alla vita di tutti i giorni.
Hussam Abu Sini, responsabile della comunità di CL in Terra santa, che comprende israeliani e palestinesi, ci racconta di persone in ansia per una situazione che potrebbe peggiorare, ma anche animate da un sincero desiderio di pace. Restano a casa il più possibile, si muovono con circospezione, fanno razzia nei supermercati di città che, dopo tempo immemorabile, hanno riaperto anche i bunker per offrire rifugi sicuri in caso di attacco.
Hussam vive ad Haifa, a un’ora dalla frontiera con il Libano, dove il pensiero di un possibile attacco di Hezbollah è un chiodo fisso che fatica a uscire di mente. Una situazione difficile che affronta insieme ai suoi amici, pregando ma anche semplicemente restando in contatto, per sentirsi meno soli di fronte a un evento inaspettato e crudele come la guerra.
Come sta vivendo la gente ad Haifa, come affronta il Paese questa situazione di emergenza?
Vivo ad Haifa ma nel weekend abbiamo fatto, con la nostra piccola comunità, una vacanza di inizio anno. Eravamo a Gerusalemme, ci siamo svegliati con le notizie dell’attacco e poi, durante la mattina, abbiamo sentito tanti allarmi e i razzi. Uno è caduto a 300 metri da noi, mentre eravamo con i nostri bambini, con le mogli: una situazione niente affatto semplice. Abbiamo deciso di stare insieme, inizialmente ci siamo detti che l’unica cosa che potevamo fare era di pregare, quindi abbiamo continuato gli incontri che avevamo fissato.
Non siete tornati a casa in anticipo?
C’era gente da Israele e dalla Palestina. Per i palestinesi che venivano da Betlemme abbiamo sentito che il check point dopo una certa ora sarebbe rimasto chiuso a tempo indeterminato, quindi abbiamo lasciato che andassero a casa.
Haifa per ora è fuori dall’area della guerra, ma le persone come hanno reagito all’aggravarsi della situazione?
Il clima è molto teso, la gente non ti guarda in faccia, compra tutto il possibile nei supermercati e in strada non trovi nessuno. Io sono oncologo all’ospedale: c’è chi non sta neanche venendo a fare la chemioterapia perché ha paura di uscire di casa. Si teme un attacco che arrivi dal Libano. E dopo le incursioni via terra di Hamas la gente ha paura che arrivino anche a casa loro e facciano quello che hanno fatto nel Sud, prendendo ostaggi e ammazzando le persone.
L’esercito è presente anche nella vostra città?
Ad Haifa no, però quando domenica sono tornato a casa con la mia famiglia c’erano posti di blocco dell’esercito che fermavano le macchine per dei controlli, per vedere se c’era qualcosa di sospetto.
I palestinesi che conosci, invece cosa ti raccontano?
Non conosco nessuno a Gaza, ma a Betlemme sì. Lì sono un po’ lontani dal cuore della guerra, come lo siamo noi, però vivono le stesse cose che viviamo noi: l’ansia per quello che potrebbe succedere. La Palestina alla fine non è grande, è come la Lombardia, forse un po’ di meno. Diciamo che in generale qui possiamo distinguere due zone: quella dove scendono i razzi e ci sono gli scontri tra i miliziani di Hamas entrati in Israele e l’esercito, che comprende Gaza, la striscia e tutti i paesini israeliani dell’area, e quella in cui per ora non sta succedendo niente di concreto, ma dove si ha paura che succederà qualcosa.
Ma la gente cosa pensa, ora che è costretta a vivere nella paura?
La gente vuole la pace. Ci sono tantissime persone in Israele, che hanno avuto qualche parente in ostaggio o persone care e conoscenti morti, che vogliono subito la vendetta. Chi non è colpito in prima persona vuole solo che tutta questa storia finisca in fretta.
Quindi non prevale l’odio?
No. Il 60-70% delle persone vogliono che finisca tutto senza troppi danni.
Il Governo viene da un periodo in cui è stato particolarmente criticato, in particolare per la sua riforma della giustizia. Ora subisce le accuse per non aver previsto l’attacco?
Netanyahu fatica a fare il Governo d’emergenza (ieri Netanyahu ha trovato l’accordo con Benny Gantz, nda). La gente, comunque, non è tanto contenta né della riforma né di come si stanno comportando adesso.
Che cosa viene contestato soprattutto all’esecutivo?
Innanzitutto ha cominciato a lavorare solo quattro mesi fa, perché nel giro di quattro anni abbiamo avuto le elezioni per cinque volte: non si riusciva a comporre una maggioranza. Stavolta Netanyahu ha portato dentro di tutto, anche gli ortodossi e la destra estrema, ora contestata perché sta cercando di imporre la sua visione. In questi giorni ci sono stati veti sull’entrata di partiti dell’opposizione nel gabinetto di guerra.
Nonostante si pensi a un governo di unità nazionale, insomma, restano i veti incrociati dei partiti?
Ci sono anche partiti di opposizione che non accettano di stare nella stessa stanza con la destra estrema. Se c’è la guerra, invece, bisogna essere uniti. Il popolo ha fatto vedere che tiene all’unità: nel giro di due giorni sono state arruolate nell’esercito più di 300mila persone.
I palestinesi, invece, cosa pensano dell’azione militare di Hamas e della loro situazione politica?
Ci sono molti palestinesi che non sono d’accordo con quello che ha fatto Hamas. Infatti, secondo me, non bisogna dire che questa è una guerra Israele contro Palestina, ma Israele contro Hamas.
La vostra comunità comprende sia israeliani che palestinesi. Nella vostra esperienza il dialogo tra i due popoli è possibile?
Io lavoro in un ospedale ad Haifa dove ci sono sia ebrei che arabi e viviamo bene insieme, anche se adesso, vista la situazione tesa, qualcuno magari smette di parlarti. Per grazia di Dio, però, sono molto pochi.
Anche tra gli arabi che conosci, nessuno, quindi, sostiene l’attacco di Hamas?
Nessuno pensa che si debba ammazzare la gente. Certo, alcuni pensano che si debbano guardare tutt’e due le facce della medaglia.
Ma alla fine perché non è possibile cercare il dialogo?
Io ho 34 anni e non ho mai visto niente di simile a quello che sta succedendo adesso. Forse mio nonno o mia nonna potrebbero raccontare quello che è successo nel 1967. Io però non c’ero. Nel 2000 ho visto la seconda Intifada, ma non ha niente a che vedere con l’attacco di oggi. Non so come si possa uscire da questa situazione, ma la politica non dà fiducia né da una parte né dall’altra.
Il problema è isolare le posizioni più estreme?
Il problema è che ognuno pensa di avere ragione. Non so se ci sarà una via d’uscita. Secondo me no. Ognuno di noi può solo cercare la pace in quello che fa.
Come è cambiata la vita quotidiana, funziona tutto come prima? Le scuole, ad esempio, sono aperte?
Le scuole sono chiuse dall’inizio di questa settimana. Ospedali e supermercati sono aperti, al lavoro si va. In ospedale, però, ci sono tanti che preferiscono andare a casa perché non ce la fanno dal punto di vista psicologico. La vita va avanti, nonostante l’ansia e l’agitazione, perché qui i giorni passano e non sta cambiando niente. Io avevo l’esame di fine specialità alla fine del mese e me lo hanno spostato a data da destinarsi.
Ci sono delle indicazioni dalle autorità, consigli su come ci si deve comportare in questo momento?
Hanno aperto e pulito i bunker che non usavamo da anni. Da noi ad Haifa non sono ancora stati utilizzarti, ma nel Centro-Sud sì.
Vivete comunque con la spada di Damocle di un possibile attacco di Hezbollah. Un pericolo molto sentito?
Da qui al confine con il Libano ci vuole un’ora in macchina. Se dovesse precipitare la situazione con Hezbollah noi saremmo in una situazione a rischio. L’ansia delle persone che vivono in quest’area dipende da questo motivo.
Quanto conta la vostra comunità nell’affrontare una situazione così difficile?
Quello che ci è successo durante il weekend ci ha dato la forza di affrontare le cose insieme: alla fine è quello che salva da tutto, nonostante il male che c’è. Ci sentiamo, cerchiamo di dire le preghiere insieme anche se siamo lontani.
(Paolo Rossetti)
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