Il rapimento dell’ingegner Vanni Calì, un imprenditore italiano che si trovava ad Haiti impegnato nella costruzione di strade, ha riportato alla ribalta delle cronache la realtà drammatica di questo piccolo paese dimenticato da tutti e tra i più poveri del mondo. Secondo le prime indagini, come succede ormai sempre più spesso, sarebbe stato rapito da una gang criminale a scopo estorsivo e sarebbe stato chiesto un riscatto di mezzo milione di dollari per la sua liberazione.
Come ci ha confermato in questa intervista Fiammetta Cappellini, volontaria Avsi da molti anni ad Haiti, a compiere il rapimento sarebbe la gang criminale 400 Mawozo: “E’ una delle moltissime bande di criminali che agiscono soprattutto nella capitale, recentemente è stata protagonista del rapimento di un gruppo di religiosi francesi, cosa che succede raramente, perché i religiosi sono molto rispettati ad Haiti. Tutti qui hanno paura: la gente comune, la popolazione più benestante e anche gli operatori umanitari. Anche se non siamo minacciati direttamente, viviamo ogni giorno un clima di violenza che ci chiama in causa e che ci lascia attoniti”. Nonostante questa situazione, sono più di 300 i volontari di Avsi impegnati ad Haiti in numerosi progetti, soprattutto in ambito educativo: “Vivere e lavorare ad Haiti è una sfida che chiede molto a ciascuno di noi, ma che è motivata dalla grande importanza dell’aiuto che possiamo portare con il nostro lavoro”.
Conoscete questa gang responsabile del rapimento? E’ molto pericolosa?
Ad Haiti la banda di 400 Mawozo, che ha rapito l’imprenditore italiano, è purtroppo tristemente famosa, in particolare recentemente è stata responsabile del rapimento di un gruppo di religiosi, tra cui alcuni padri missionari di nazionalità francese, rapimento che ha fatto molto clamore: qui i religiosi sono rispettati e amati dalla popolazione, e questo rapimento è stato un segnale importante del degrado generale in cui versa il Paese. La banda di 400 Mawozo è una banda pericolosa come lo sono tutte le bande di Haiti, che sono numerose e concentrate in particolare nella capitale.
Ci sono molte bande criminali come questa? Le autorità non riescono a fare nulla?
Quello delle bande è un fenomeno storico, che risale molto indietro nel tempo, all’epoca della dittatura dei Duvalier, e che non si è mai riusciti a estirpare. Ogniqualvolta il Paese conosce un periodo di crisi, l’attività delle bande riprende vigore. Attualmente il Paese è in preda a una grave recessione economica e a una crisi socio-politica molto profonda, che dura ormai dal luglio 2018, ormai 3 anni. Una crisi di cui non vediamo una soluzione nel breve periodo, anzi temiamo un ulteriore peggioramento a breve.
Dove agiscono soprattutto questi gruppi di criminali?
Le bande controllano ormai diversi popolosi quartieri della capitale, i più poveri: Cite soleil, Martissant, La Saline Bel Air. Sono numerose, e a volte anche schierate in alleanze contrapposte, vivono di criminalità e si finanziano con racket e – appunto – rapimenti. E’ proprio di queste recenti 48 ore una nuova ondata di violenza nel quartiere di Martissant, dove lo scontro tra due bande rivali per il controllo del territorio ha lasciato una scia di morti e di violenze, una fuga generalizzata della popolazione, con centinaia di persone scappate, case bruciate e cadaveri abbandonati nelle strade. Quella che si vive in questo preciso momento nella capitale è una situazione da guerriglia urbana e con un livello di violenza altissimo.
Vengono prese di mira anche le Ong e i volontari come voi che lavorano per associazioni benefiche o vi sentite tranquilli? Siete mai stati minacciati o presi di mira?
Le Ong non sono direttamente prese di mira dalle bande. Anzi, in diversi quartieri le Ong storiche, che hanno un legame con le comunità, sono normalmente riconosciute e rispettate. Ciononostante, la deriva della violenza è attualmente così grave che nessuno può più pensare di esserne indenne. Lo dimostra il recente rapimento del gruppo di religiosi. La violenza si è ormai cosi allargata, sia geograficamente che socialmente, che nessuno oggi, ad Haiti, può sentirsi al sicuro.
Tu lavori da molti anni per Avsi ad Haiti, come si svolge il vostro lavoro in questa situazione?
Avsi da 15 anni lavora proprio in seno alle comunità più difficili della capitale; abbiamo équipe di lavoro numerose, collaboratori reclutati proprio tra i giovani di queste comunità; i nostri programmi spaziano dall’educazione alla protezione di donne e bambini, dalla nutrizione alle tematiche dei diritti umani. Il nostro legame con queste comunità è storico e molto forte. Questo in una certa misura ci protegge: la comunità stessa ci protegge; ma in questo momento storico, in questo contesto, non è sufficiente a garantire totalmente l’immunità dei nostri operatori.
La gente si sente abbandonata dallo Stato?
Tutti oggi ad Haiti hanno paura: la gente comune, la popolazione più benestante e anche gli operatori umanitari. Anche se non minacciati direttamente, viviamo ogni giorno un clima di violenza che ci chiama in causa e che ci lascia attoniti. Ma il nostro lavoro ha una importanza enorme per la popolazione dei quartieri vulnerabili, e oggi più che mai è importante trovare modalità e strategie per portarlo avanti.
Ci fai qualche esempio?
Abbiamo misure di protezione per il nostro staff e protocolli di sicurezza molto rigidi, ci proteggiamo per proteggere la nostra gente, per proteggere i nostri progetti e per non lasciare sole le comunità che contano su di noi. Ma il nostro lavoro è ogni giorno più difficile.
Come è la situazione dopo il terremoto del 2010? Ancora tante persone sono senza casa?
La grave situazione del post terremoto del 2010, come l’epidemia di colera che ne è seguita, sono emergenze ormai lontane nel tempo, gli effetti diretti di queste crisi non sono più visibili. Ciò che resta però è un paese fragile e in difficoltà, come lo era purtroppo già molto prima del terremoto del 2010, solo che il mondo non sapeva o non se ne accorgeva. La verità è che Haiti è un Paese in crisi da tempo immemore, dove le soluzioni durature ancora non sono state trovate.
Anche da voi la pandemia di Covid-19 si è manifestata in modo grave?
Fino a poche settimane fa il Covid aveva in qualche modo risparmiato Haiti: la prima vera ondata è arrivata solo tre settimane fa e sono bastate alcune centinaia di casi gravi per gettare il Paese in una ennesima crisi: gli ospedali si sono saturati in pochi giorni, perché la capacita di accoglienza è ridottissima, manca la corrente elettrica in moltissimi ospedali, figuriamoci i letti in terapia intensiva o l’ossigeno per i malati. Il ministero della Salute è impotente di fronte a questa urgenza, come lo è lo Stato di fronte alla situazione generale di crisi del Paese. Non ci sono strutture, soluzioni, capacità di uscire da soli da questa situazione che diventa ogni giorno più grave.
Arrivano aiuti internazionali?
Gli aiuti internazionali ad Haiti ci sono, la comunità internazionale e le agenzie umanitarie sono presenti, ma tutto questo si rivela insufficiente: l’attenzione internazionale è altrove, ed è stata altrove per troppo tempo. Questo – ci rendiamo conto – è inevitabile in un momento come questo dove il mondo intero affronta sfide epocali. Ciononostante non possiamo non dire che questa disattenzione sta condannando senza appello Haiti.
Qual è il vostro impegno personale? Di cosa vi occupate?
Avsi lavora ad Haiti da ormai oltre 20 anni, con una presenza importante nel Paese e un team di collaboratori che supera le 300 persone. La nostra è una presenza quotidiana, a fianco proprio delle comunità più in difficoltà. I nostri interventi rispondono sia a situazioni di urgenza – come la violenza attuale – che alle necessità di accompagnamento più di lungo periodo, per esempio nel campo dell’educazione dei bambini. Interveniamo in ambito urbano, nella capitale, e in ambito rurale in diversi dipartimenti periferici. Tra i molti settori di intervento, siamo particolarmente impegnati sul fronte della protezione umanitaria contro la violenza e sul tema dello sviluppo rurale e agricolo.
Cosa vuol dire occuparsi di persone così sfortunate, come cambia la vostra e la loro vita?
Vivere e lavorare ad Haiti oggi è questo: una sfida. Che chiede molto a ciascuno di noi, ma che è motivata dalla grande importanza dell’aiuto che possiamo portare con il nostro lavoro. Si parla spesso delle difficoltà che gli operatori umanitari vivono e certamente questa è una grande verità: questo è un lavoro difficile, da prima linea. Ma la vera difficoltà è quella della gente per cui lavoriamo, delle comunità in cui operiamo. La loro è la vita difficile; la loro è la vita che non ci può lasciare indifferenti, che deve interrogarci e farci sentire chiamati in causa, la vita che può e deve cambiare, perché così come è oggi non è accettabile. Guardare in faccia questa realtà, vederne l’ingiustizia e l’inaccettabilità, questa è la spinta al nostro lavoro di ogni giorno, la motivazione che ci fa affrontare le difficoltà di questi momenti di crisi, nella speranza di costruire un domani migliore per tutti.
(Paolo Vites)
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