È ancora il momento delle bande, quelle che si sono coalizzate e stanno facendo il bello e il cattivo tempo a Port-au-Prince. Le stesse che da anni sono radicate in alcuni quartieri della città, dove arruolano giovani senza lavoro e senza prospettive. Haiti non vede ancora l’uscita dal tunnel delle violenze che di fatto hanno costretto a dimettersi il primo ministro Ariel Henry. Per ora, un’alternativa di governo non c’è. Anzi, come racconta Fiammetta Cappellini, regional manager di AVSI per i Caraibi, molti sono costretti ad abbandonare le loro case con negli occhi le immagini delle violenze di questi giorni e nel cuore la sofferenza per le condizioni in cui si è ridotto il loro Paese. Ma il momento della peggiore crisi mai vista deve essere anche quello della speranza e della responsabilità nei confronti della gente di Haiti da parte della comunità internazionale, che deve sostenere gli sforzi per dare un governo al Paese e per aiutare la popolazione a condurre una vita dignitosa: gli haitiani non possono essere abbandonati alle gang.
Com’è la situazione nella capitale dopo la rivolta delle bande?
Tutta la storia di Haiti è costellata di questi periodi bui, ma in 18 anni che vivo ad Haiti e in oltre 20 che frequento il Paese, una situazione così grave non l’ho mai vista: un progressivo degrado del conflitto sociale e politico e una gestione del governo del Paese irresponsabile, non volta al bene comune. Questo ha fatto in modo che il potere delle bande fosse così forte da far finire sotto il loro controllo l’80% della capitale, con la polizia che lotta strenuamente per difendere alcuni baluardi. Siamo preoccupatissimi.
A Port-au-Prince come si vive?
La gente che abita nei quartieri dove ci sono gli scontri più pesanti se ne va: ci sono molti sfollati interni. Fuggono con i bambini, portandosi gli anziani in spalla, abbandonando tutto e rifugiandosi due chilometri più in là, in attesa che torni la calma. In città sono decine di migliaia le persone in queste condizioni, che magari restano fuori casa qualche giorno. C’è gente accampata in mezzo alla strada in situazioni terrificanti.
Per chi può, c’è la possibilità di lasciare il Paese?
L’aeroporto in questo momento è chiuso, non è agibile, è sotto il controllo delle bande armate ed è l’unico punto di uscita dalla capitale. Le strade periferiche che escono dalla città non sono percorribili da più di un anno.
Le bande criminali che oggi la fanno da padrone come sono arrivate a contare così tanto?
Il fenomeno delle bande armate ad Haiti esiste da decenni. In passato sono state al servizio di governi dittatoriali o semidittatoriali, con un ruolo anche nello scenario politico. Poi sono diventate bande armate da delinquenza comune e, nel momento in cui la capacità di governo del Paese si affievolisce, si rinforzano. A volte sono al soldo di strategie di destabilizzazione del Paese, in altri casi pagate nel tentativo di dare un minimo di stabilità. Di fatto si sono rinforzate sempre di più e, in questo momento, sono potentissime.
Ma hanno delle basi, controllano una parte del territorio?
Sono molto radicate nei quartieri vulnerabili della capitale. Approfittano del fatto che il Paese è povero, ridotto praticamente alla fame. I giovani, in questi quartieri, di fatto non hanno alternative: non c’è lavoro, né attività economiche. Non si sa neanche come arrivare a fine mese e a fine giornata. Le bande pescano più facilmente tra questi giovani senza futuro. E non è solo una questione di violenza e di criminalità: c’è una crisi profondissima del Paese. Nella capitale ci sono milioni di persone ostaggio della violenza. Mancano i servizi di base, le scuole sono chiuse, non c’è più nulla di normale nella vita di tutti i giorni. Una vita terribile.
Chi potrebbe aiutare il Paese a uscirne? In questo momento sembra che le uniche in grado di imporsi siano le bande: saranno loro a esprimere il governo o comunque dovranno tenerle in considerazione?
Se si riuscisse a trovare un compromesso politico, per una seconda fase di ritorno alla normalità, sicuramente il ruolo dei capi delle bande armate dovrà essere preso in considerazione, in un modo o nell’altro.
AVSI in questo contesto come sta continuando il suo lavoro?
Noi vorremmo essere la voce della gente. Vorremmo che in queste discussioni il peso maggiore lo avesse l’interesse della popolazione, che ha bisogno di aiuto, servizi, di tornare a una vita dignitosa. In tutto questo, la comunità internazionale potrebbe avere un ruolo importantissimo. Il problema è che, in una situazione del genere, molto spesso ci si scoraggia, pensando che questo sforzo di operare ad Haiti non serva a nulla. È difficile, ma c’è ancora lavoro da fare e deve essere fatto. Non si può abbandonare la gente in questa situazione, non si può proprio.
Da quanto operate ad Haiti?
AVSI lavora ad Haiti da 25 anni. Abbiamo costruito un legame forte. Oggi per noi lavorano 300 persone, delle quali 280 sono haitiane. Per questo, la nostra presenza all’interno della comunità è molto forte. Direi che la cosa più importante che AVSI ha costruito in Haiti è nel cuore delle persone. Per noi, quello che è importante realizzare non sono le case, le scuole, gli ospedali, ma prima di tutto la persona, l’essere umano. È da lì che parte il cambiamento. Per noi è importante esserci per questo, essere al fianco della popolazione sostenendo la speranza di un domani migliore. Nonostante la drammaticità della situazione, gli haitiani sono sempre stati un popolo forte e caparbio, capace di rialzarsi. Vediamo negli occhi della gente la capacità di guardare al domani, ma servono delle azioni più concrete. La soluzione ai problemi deve essere haitiana, ma la comunità internazionale deve sostenere la gente: i Paesi che hanno più possibilità, anche economiche, e una maggior coscienza dell’importanza del rispetto dei diritti umani non possono voltarsi dall’altra parte.
Ci sono realtà haitiane che potrebbero esprimere la parte migliore della società e concorrere a realizzare un governo e un Paese migliore?
Il nostro lavoro nei momenti di minore urgenza è prettamente sociale; speriamo che, insieme alla società civile haitiana, sia un lavoro che crea una visione di umanità positiva, terreno fertile per produrre questo tipo di soggetti. Anche se questo non è il nostro mandato, che è di stare a fianco della popolazione.
Gli haitiani che lavorano con voi come vivono questa situazione, cosa esprimono del loro stato d’animo?
Dei nostri 300 collaboratori, la metà fanno base nella capitale: stanno vivendo momenti terribili, un’alta percentuale di loro ha dovuto abbandonare la propria casa. Sono in una situazione abitativa di fortuna e hanno visto con i loro occhi fatti di sangue molto violenti. Nonostante la loro sofferenza sono all’opera, perché si rendono conto dell’importanza del lavoro che si fa in seno a queste comunità. La sofferenza di vedere il proprio Paese in questo stato, però, è profondissima.
Insomma, la situazione è drammatica, ma la speranza non deve mancare. Non è il momento di abbandonare la barca.
Assolutamente. Le persone che sono state vittime di questa violenza e che hanno perso tutto devono continuare a credere nell’importanza di fare il proprio lavoro a fianco della comunità. Dobbiamo lottare per fermare la deriva che il Paese sta prendendo. Questo è quello che credono gli haitiani che lavorano con noi oggi.
(Paolo Rossetti)
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