Le bande che controllano porto, aeroporto e ospedale. Un Consiglio di transizione che deve indicare un nome per guidare ad interim il Paese. La gente che a Port-au-Prince ha difficoltà ad avere acqua, elettricità e anche viveri. La situazione ad Haiti è ancora drammatica e, per il momento, non si riesce ad uscire dalla prospettiva nella quale hanno incanalato il Paese le gang che stanno spadroneggiando nelle strade della capitale.
In tutto questo, racconta Fiammetta Cappellini, responsabile dell’ONG AVSI in Haiti, le persone se ne stanno chiuse nelle case sperando che il quartiere dove abitano non venga attaccato. Ma quando succede si fa la conta dei cadaveri abbandonati per la strada. AVSI cerca, per quello che è possibile, di garantire i suoi servizi alla popolazione, ma fino a che la violenza delle gang non verrà neutralizzata sarà difficile trovare una soluzione al caos di questi giorni, che dura da anni e sembra non voler finire.
Com’è la situazione ora ad Haiti? Ci sono spiragli per immaginare una soluzione ai disordini di questi giorni?
Sono stati fatti alcuni passi politici per uscire dalla situazione, ma per ora non hanno prodotto nessun beneficio. Le bande mantengono molto bene il controllo delle zone che hanno conquistato in questo mese, come il porto e l’aeroporto. La strategia dell’ultima settimana è consistita in attacchi soprattutto alle strutture pubbliche: l’ospedale, l’università, la biblioteca, gli edifici pubblici governativi. Anche in questo caso hanno distrutto e saccheggiato. L’ospedale è il più importante della città, occuparlo significa interrompere un servizio vitale per la gente.
Qual è l’obiettivo delle gang? Prendere direttamente il potere?
Vogliono prendere il potere o quantomeno essere considerate dal punto di vista politico. Ma nel Consiglio di transizione che è stato nominato in questi giorni non c’è nessun loro rappresentante. Per questo hanno annunciato che non riconosceranno un primo ministro o un presidente ad interim che venga nominato dal Consiglio. Andranno avanti così fino a quando non verranno considerate o sconfitte sul campo di battaglia.
In questo momento chi esercita il potere?
Non c’è un primo ministro e chi faceva parte del governo precedente non ha più voce in capitolo. È come se l’esecutivo fosse stato sciolto. La prima cosa di cui si deve occupare il Consiglio di transizione è di esprimere la candidatura di un primo ministro o presidente ad interim. Di questo organismo fanno parte i rappresentanti dei partiti o delle coalizioni politiche principali, ma anche del mondo degli affari, della società civile e della diaspora, ovvero degli haitiani all’estero.
La vita delle persone ad Haiti come è cambiata in queste settimane?
La vita della gente nella capitale non è vita. Sta chiusa in casa sperando che non venga attaccato il suo quartiere e se succede scappa con le poche cose che riesce a portarsi dietro e il rischio di subire violenze. Si spara in continuazione, tutte le notti. E la mattina c’è la conta dei cadaveri che si trovano per strada. Una situazione drammatica, totalmente fuori controllo, le attività normali della popolazione sono ridotte praticamente a zero. C’è ancora qualche piccola oasi e nei quartieri più ricchi va leggermente meglio: lì c’è qualche timida apertura, si riesce ad avere le banche aperte un paio di mezze giornate a settimana. Ci sono difficoltà nella distribuzione dell’acqua, nell’erogazione dell’energia elettrica e funziona il 10% dei servizi sanitari. C’è un problema grave di approvvigionamento, di cibo ma anche di benzina, che serve per far funzionare i generatori e avere la corrente elettrica. L’acqua viene distribuita dai camion nelle cisterne e ci vuole una pompa che va a corrente per averla nel sistema idrico della casa. La gente benestante si può permettere il necessario, ma i prezzi sono cresciuti in maniera esponenziale.
E voi come AVSI quali servizi riuscite ancora a garantire?
Siamo strutturati ad agire in modalità di emergenza, abbiamo delle scorte, sistemi di sicurezza, di comunicazione e di trasporto che ci permettono di restare operativi. I nostri operatori haitiani vivono nelle comunità in cui operiamo e quindi sono già sul posto. Riusciamo a svolgere attività di appoggio psicosociale per donne e soprattutto bambini, per cercare di sanare le ferite psicologiche gravissime che questa situazione sta creando. Riusciamo anche a procedere a timide distribuzioni di voucher alimentari, già in corso prima dell’ultima crisi. Ma se in precedenza coprivamo grandissimi numeri adesso li abbiamo dovuti ridurre per una questione di sicurezza, per non creare assembramenti che espongano i beneficiari a dei rischi. Si riesce a rifornire centinaia di famiglie, non le migliaia di persone che ne avrebbero bisogno. Nella capitale è così, mentre in periferia le nostre attività di sicurezza alimentare, di nutrizione, educative, proseguono meglio. Il vero problema però è Port-au-Prince, che ormai deve essere trattata come una zona di guerra.
Haiti è abbandonata a sé stessa in questo momento o c’è qualcuno della comunità internazionale che se ne interessa?
Il problema anche per la comunità internazionale è come distribuire gli aiuti in questo scenario, in termini di sicurezza degli operatori e di approvvigionamento. Il Paese ha il porto sotto il controllo delle bande e l’aeroporto è chiuso da un mese. Nella capitale l’80% dei beni sono importati, ma di solito passano attraverso la frontiera terrestre, che è chiusa al commercio, il porto, che non riceve una nave da oltre un mese, e l’aeroporto, che è off-limits da cinque settimane. Non entra più niente. Anche il World Food Programme fa fatica a operare. Noi vorremmo un dialogo più serrato, operativo, con le agenzie di aiuti internazionali, che possa avere come risultato di sostenere gli operatori che hanno una lunga storia e che hanno una capacità operativa. Ma in questo momento è difficile.
Resta comunque il problema di come neutralizzare queste bande dal punto di vista militare?
Come operatori umanitari non possiamo propendere per una soluzione militare ai problemi del Paese e, d’altra parte, la popolazione è ostaggio della violenza di queste bande: una soluzione deve essere trovata. Mesi fa abbiamo realizzato un evento per sensibilizzare il Parlamento Europeo, dicendo proprio che la finestra di opportunità per frenare la deriva della violenza in Haiti si stava chiudendo ed era importante intervenire tempestivamente, perché se le cose avessero continuato a peggiorare in questa direzione sarebbe stato impossibile tornare indietro. Non siamo stati molto ascoltati. E adesso siamo in questa situazione. Onestamente non vedo come in dialogo possa produrre il risultato sperato. Il nostro lavoro in ogni caso è stare a fianco della gente. Comunque, non vedo come si possa risolvere una situazione del genere senza neutralizzare militarmente le bande.
(Paolo Rossetti)
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