Un sacerdote ucciso per strada, appena uscito da una banca, padre André Sylvestre, 70 anni, parroco di Nostra Signora della Misericordia di Robillard, a Cap-Haïtien, seconda città di Haiti. È successo nei giorni scorsi e rappresenta il quadro terribile di questo piccolo paese che non è mai riuscito a sollevarsi dalla corruzione politica, dalla crisi e dallo sfruttamento economico, a cui si aggiungono, per somma sfortuna, i cataclismi naturali.
Nelle ultime settimane, infatti, Haiti è stata colpita prima da un disastroso terremoto, che ha causato più di duemila vittime, e poi dal passaggio dell’uragano Grace, con la sua scia di altri morti e altre distruzioni delle povere case degli haitiani. Nonostante tutto questo, ci ha detto in questa intervista Fiammetta Cappellini, responsabile dell’Ong Avsi in Haiti, “la gente, anche se stanca e sfiduciata, resiste e ricomincia sempre da capo. In tutti questi anni, al di là delle difficolta e delle tragedie, siamo riusciti a costruire. Le infrastrutture crollano e sono sempre da ricostruire da capo dopo ogni uragano o terremoto, ma quello che negli anni abbiamo fatto per queste persone rimane, non viene portato via. E noi lo vediamo nei loro occhi”.
Prima il terremoto, poi l’alluvione, Haiti è flagellata dai disastri naturali. Quali sono le condizioni attuali, a che livello di distruzione delle case e delle strutture come ospedali e scuole siamo arrivati?
Il livello di distruzione nella zona colpita è molto elevato, nell’area interessata dal terremoto e dall’alluvione il 30% degli edifici è caduto, mentre nelle zone rurali ci sono comunità dove addirittura l’80% delle case è andato totalmente distrutto. Gli ospedali, che già prima del terremoto erano insufficienti per il numero degli abitanti, oggi quasi non ci sono più. Riguardo alle scuole, la situazione è gravissima, il ministero ha già decretato la non riapertura dell’anno scolastico.
Nelle molte tendopoli che sono sorte in queste settimane mancano i servizi igienici, l’acqua potabile, c’è pericolo che si diffondano infezioni? Il Covid è sotto controllo?
Dopo il terremoto e la tempesta tropicale il governo ha chiesto alle organizzazioni umanitarie di non distribuire tende in luoghi lontani dalle abitazioni colpite per non andare a creare nuove tendopoli, fonti di diffusione di infezioni. Abbiamo quindi aiutato la popolazione con accampamenti informali vicino alle abitazioni distrutte, sulle macerie.
Qual è la maggiore difficoltà?
In questi alloggi di fortuna il problema principale resta l’acqua potabile, non c’è più acqua pulita, perché il terremoto ha toccato la falda, cambiando le fonti. Le persone nelle zone rurali si approvvigionano direttamente al fiume con acqua non potabile. Siamo preoccupati che si possa diffondere un’epidemia di colera, come era già successo dopo il terremoto del 2010. Cerchiamo di sensibilizzare la popolazione sulla diffusione di queste malattie e distribuiamo kit igienici, ma serve trovare subito soluzioni per avere acqua per la popolazione.
Le molte bande criminali che caratterizzano il paese stanno sfruttando la situazione? Ci sarebbero assalti ai convogli umanitari, è così? Anche casi di violenze e abusi su minori e donne?
I problemi legati alla sicurezza sono soprattutto due. Il primo è di natura urbana ed è legato alle molte bande armate diffuse nei diversi quartieri. Nello specifico, in merito al terremoto del 14 agosto, si è riscontrato un grosso problema per l’impossibilità di percorrere l’unica strada che collega la capitale alla zona colpita a sud del paese, a causa del conflitto tra le bande e la polizia. Solo dopo un grande intervento diplomatico e militare la strada è diventata percorribile, ma questo ha impattato negativamente sull’arrivo degli aiuti, che sono giunti a destinazione solo 10 giorni dopo la catastrofe naturale.
L’altro problema?
È legato all’attacco dei convogli umanitari che portano gli aiuti. Questi camion, prima di arrivare nelle zone di destinazione colpite, passano in mezzo a bidonville disastrate, e qui può succedere che le persone che non hanno ormai più di che mangiare blocchino i camion e li saccheggino per procurarsi beni di prima necessità.
Come Avsi, quante famiglie riuscite ad assistere? La Conferenza episcopale italiana ha stanziato un milione di euro, è sufficiente o ci vogliono maggiori aiuti?
In questo momento assistiamo circa 5mila persone nelle zone colpite con diversi tipi di intervento. A Le Cayes distribuiamo kit di prima emergenza alle famiglie, mentre nelle zone rurali stiamo realizzando attività di protezione dell’infanzia, coinvolgendo diverse centinaia di bambini. Un milione di euro aiuterà moltissimo le persone, che così riceveranno gli aiuti per alcuni mesi, ma non basta. La dimensione della catastrofe è enorme, servono miliardi di euro per sostenere la popolazione colpita.
Haiti è un paese incredibilmente sfortunato: oltre a essere colpito continuamente da catastrofi naturali, è anche alle prese con una situazione politica da sempre caotica. La gente riesce a mantenere la speranza o è disperata?
Haiti è un paese fragile. Tutto è fragile: la politica, le infrastrutture, la governance, i servizi di base. Tutto quello che succede viene vissuto in modo amplificato, perché tutto è instabile. La gente è stanca, fa fatica, ma si rialza, è attaccata alla propria terra e cerca ogni giorno un modo di vivere. La nostra presenza sul terreno diventa la loro speranza. Le persone sono affezionate al nostro staff Avsi, la metà dei nostri colleghi al sud è parte stessa della popolazione, siamo accanto a loro, con loro. In tutti questi anni, al di là delle difficoltà e delle tragedie, siamo riusciti a costruire, le infrastrutture crollano e sono sempre da rifare da capo dopo ogni uragano o terremoto, ma quello che negli anni abbiamo fatto per queste persone rimane, non viene portato via. E noi lo vediamo nei loro occhi.
(Paolo Vites)
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