Le bande spadroneggiano ancora a Port-au-Prince. I loro checkpoint sono il segno della presenza nel centro della città, nella parte dove hanno sede le attività economiche e le istituzioni di Haiti. Hanno allentato un po’ la pressione sui quartieri residenziali, ma restano molto pericolose, prova ne sia l’uccisione di due missionari americani e di un loro collaboratore locale durante un’incursione per una rapina in un orfanotrofio. Mancano le medicine perché le farmacie sono state prese d’assalto dagli uomini delle gang e, in generale, gli approvvigionamenti sono difficili per la chiusura delle frontiere.
E mentre il Consiglio di presidenza, che dovrebbe gestire la fase che precede nuove elezioni, non riesce a prendere in mano la situazione, le speranze, spiega Jessica Granito, responsabile dei progetti di AVSI ad Haiti, sono ora riposte nella Missione multilaterale di supporto alla sicurezza, composta principalmente da forze di difesa keniane, ma anche di Bahamas, Bangladesh, Benin, Ciad e non solo. Fra tre settimane dovrebbe arrivare nel Paese per contribuire a rimettere ordine nella capitale, sperando che non sia l’occasione, per le bande, di rinfocolare gli scontri e di aggravare ancora la situazione della gente comune.
Com’è la situazione a Port-au-Prince, le bande la fanno ancora da padrone?
Qualcosa è cambiato solo in alcuni quartieri, in quelli un po’ più residenziali, come ad esempio Pétion-Ville, la zona dove abitano persone che hanno un po’ più di mezzi, dove ci sono supermercati e hotel. Il controllo delle bande lì è un po’ scemato, c’è meno tensione, anche se la situazione resta comunque volatile.
Le gang non controllano tutta la città?
In certe zone ci sono meno atti di violenza e scontri con la polizia. Quelle principali, di cui hanno preso possesso dopo il 29 febbraio, restano terra di nessuno. Sono vicine ai loro quartieri generali e al centro città, sede di molte attività economiche e delle istituzioni haitiane. Qui ci sono dei checkpoint per controllare il passaggio delle auto e dei privati, mentre in altre aree vengono comunque sorvegliate le strade principali.
C’è stata l’uccisione di tre persone in un orfanotrofio. Incursioni come questa sono ancora all’ordine del giorno?
Sono morti due missionari americani e il direttore haitiano dell’orfanotrofio in cui operavano. Da quello che sappiamo, non significa che ci sia la volontà di attaccare gli stranieri o il personale delle ONG. Però monitoriamo da vicino la situazione. Si è trattato probabilmente di una rapina, di un assalto per rubare quello che c’era nel compound dove si trovano l’orfanotrofio e una chiesa: stiamo cercando ancora di approfondire se c’è stato qualche altro risvolto.
Dal punto di vista politico, istituzionale, cosa si sta muovendo?
È stato istituito un Consiglio presidenziale transitorio, anche se non ha preso decisioni chiare: dicono che vogliono smantellare le bande e che la partita si giocherà sulla loro richiesta di impunità. Si parla di elezioni da qui a dieci mesi, anche se la società civile è abbastanza scettica sul fatto che si verifichino le condizioni perché ci siano delle votazioni, soprattutto in attesa della missione di polizia a guida keniana il cui arrivo è stato spostato verso metà giugno.
Come sono i rapporti tra le bande e il Consiglio presidenziale?
Le gang volevano avere una sorta di rappresentante dei loro interessi nel Consiglio. Uno dei componenti dialoga con loro, fa un po’ da tramite, anche se non credo li rappresenti direttamente.
L’arrivo di questa missione militare alimenta la speranza che si riesca a riportare ordine nella capitale?
I sentimenti sono contrastanti: una parte della polizia chiede questo tipo di supporto a livello di risorse umane e di equipaggiamenti, che non sono al livello delle bande. Alcuni settori della società civile reputano che sia il modo per cercare di contrastare il potere delle bande, per tentare di restringerlo almeno nelle zone in cui era concentrato prima di febbraio, prima degli scontri.
Come hanno agito finora le bande, quali conseguenze hanno avuto le loro incursioni su Port-au-Prince?
Hanno bruciato e saccheggiato tutte le farmacie e gli ospedali, ora mancano i servizi di base. Il Paese ha già ricevuto in passato una serie di missioni internazionali che non hanno lasciato un buon ricordo, a causa del colera e delle violenze perpetrate dai soldati. Per questo c’è un po’ di scetticismo su quella che è in arrivo. Le gang poi dicono: “se dobbiamo colare a picco non lo faremo da soli”, intendendo che ci sarebbero delle conseguenze sulla popolazione più povera, sui civili, che potrebbero venire colpiti in caso di scontri fra loro, la polizia e la missione keniana in arrivo.
Come vive la gente oggi a Port-au-Prince?
Le persone si aspettano che la situazione peggiori: le scuole sono chiuse in alcune zone, i bambini da più di tre mesi non ci vanno, se c’è bisogno di cure è difficilissimo reperire medicinali. La maggior parte delle importazioni arrivano dalla Repubblica Dominicana, ma con questo Paese le frontiere terrestri e aeree sono chiuse. Gli scontri fra bande e polizia hanno fatto molte vittime fra la popolazione civile: nel primo trimestre dell’anno, secondo i dati ufficiali, sono state più di 2mila, il 50% in più del 2023. Le persone sono preoccupate quando qualcuno della loro famiglia esce, anche semplicemente per andare al lavoro: non sanno mai se tornerà a casa o no. Quello haitiano è un popolo resiliente, tendono a trovare un modo per gestire la situazione, ma c’è stanchezza e inquietudine per il futuro.
Come AVSI riuscite a svolgere ancora le vostre attività?
Lavoriamo in tutto il Paese, nella capitale e in altri quattro uffici, nel Sud, Nord-Est e Nord-Ovest. Dopo le prime violenze abbiamo ridotto lo staff all’essenziale. Ora che la pressione su certi quartieri sta scendendo vorremmo fare rientrare qualcuno. A Port-au-Prince siamo sempre stati operativi nei quartieri più caldi. Lo staff che lavora con noi, quello storico, abita in queste zone o in quelle limitrofe e questo ci permette di ridurre il rischio: non devono compiere spostamenti importanti per arrivare da casa loro. Sulla capitale l’80% delle azioni sono a carattere umanitario, servizi di assistenza, di prima necessità. Forniamo appoggio psicologico, psicosociale o forniamo voucher per sostenere chi ha subito direttamente la violenza delle bande, facciamo un lavoro che riguarda la sicurezza alimentare e cerchiamo di garantire alle famiglie che i figli abbiano accesso all’educazione. Lo facciamo non solo a Port-au-Prince. Accanto a questi interventi di urgenza svolgiamo attività di sviluppo.
Cosa vi aspettate adesso?
Speriamo che l’arrivo della missione internazionale serva a contrastare le bande, a restringere geograficamente le zone sulle quali hanno influenza. La preoccupazione legata a questa speranza è che eventuali scontri non si ripercuotano ancora sulla popolazione civile.
(Paolo Rossetti)
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