Il tempo presente è destinato a contrassegnare per lunghe decadi il tempo futuro. Siamo entrati nel terzo shock esogeno al ciclo economico mondiale: quello dopo la contaminazione pandemica e la guerra imperiale e inter-imperialistica della Russia nei confronti dell’Ucraina.

Lo Stato ebraico avrebbe dovuto divenire il centro di una nuova “via del cotone” in funzione anti-cinese come ipotizzato nell’ultimo G20. Per distruggere questa nuova articolazione del plesso del potere mondiale del Grande Medio Oriente si è sviluppato l’attacco iraniano-saudita-palestinese a Israele. Un attacco che vuole aggredire la struttura nervosa dei rifornimenti di materie prime fossili al mondo intero e in primis all’Europa, come continente a egemonia franco-tedesca e a dominazione tecnocratica non elettiva di stampo funzionalista al modo dell’Unione Europea.



Il fuoco che incendia la prateria è l’odio anti-israeliano delle correnti storiche del patriottismo terroristico palestinese che hanno storia, nome, cognome. È iniziato un nuovo modello di lotta armata globale che sa intrecciare terrorismo e potenza statuale in un’asimmetria che ha fatto da decenni le sue prove, a iniziare dall’attentato di Monaco nel 1972, e che è proseguito con gli attentati che hanno sconvolto l’Italia e l’Europa. Durerà a lungo.



Avevo ricordato, nel precedente articolo su queste pagine, come le guerre locali generate da condizioni di mancata centralizzazione capitalistica pienamente dispiegata non solo generano e disvelano lo sviluppo ineguale del capitalismo su scala mondiale, ma rivelano la mancata centralizzazione politica dei capitalismi nazionali e supernazionali dando vita a scontri inter-imperialistici nazionalistici. Oggi, in Israele, si verifica esattamente un processo di questo tipo.

Crollano le potenze che unificano le forze consentendo gli equilibri tipici delle relazioni internazionali stabili di lunga durata ed emergono le frattalità peristaltiche delle medie potenze. Esse disvelano la fragilità della centralizzazione, per la forza antagonistica generata dall’emersione di nuove borghesie protagoniste su scale locali e che si rafforzeranno via via più che mai, nel generale crollo della potenza anglosferica unificante.



Questo ampliamento delle contraddizioni inter-imperialistiche è oggi possibile grazie a quell’attore economico politico schumpeteriano devastante su cui Antonio Pilati fornì da par suo un contributo imperituro: la digitalizzazione crescente con ritmi sempre più prossimi alla potenza quantistica che ridisegna i confini del potere politico-economico. Da parte mia contribuii già molti anni or sono – con La democrazia trasformata, scritto sotto l’occhio vigile di Piero Bassetti – a far comprendere come le poliarchie del tardo capitalismo dovevano via via sempre più inserire, nel parallelogramma delle forze decisorie, gli interessi dei poteri situazionali di fatto, non contenibili nella rappresentanza territoriale, parlamentare in specie. Mi riferivo alle banche centrali, alle corporations, potenze generatrici di universi simbolici e di creazioni di narrazioni transumane che sono esplose in questi ultimi anni nella “guerra asimmetrica da eliminazione fisica dell’avversario”, com’è risultato evidente con il fondamentalismo islamico.

L’attacco asimmetrico realizzato in questi giorni dell’ottobre 2023 dalla galassia sterminatrice proveniente da Gaza e finanziata dall’universo statual-ideologico che, mentre firma gli Accordi di Abramo, opera indefessamente per distruggere lo Stato di Israele, lo dimostra.

È in gioco ciò che l’anglosfera pensò di aver realizzato con la mossa del cavallo dell’eliminazione fisica di Gheddafi nel 2011 e, prima ancora, con l’attacco proditorio all’Iraq del 2003, che divise l’Ue e il capitalismo occidentale, là dove scorrono le arterie del rifornimento nevralgico della potenza energetica mondiale.

Le transizioni digitale ed energetica dovevano insieme consentire di realizzare un accordo globale inter-capitalistico, dopo le guerre nordafricane e quelle del Grande Medio Oriente, dove – con l’Africa – si decidono i destini del mondo. Ma l’insorgenza della potenza neo-ottomana e la reazione imperiale russa dinanzi al disegno di impossessarsi delle sue risorse – siberiane e non – al tempo di Eltsin, hanno fatto fallire la via pacifica (centralizzatrice, appunto) di quella sorta di riaffermazione imperiale uni-polarista che l’anglosfera ha ricercato e ancora ricerca implacabilmente: la guerra diviene, invece, inevitabile.

Lo dimostra oggi il gruppo portaereo Ford inviato nel Mediterraneo dagli Usa: un’espansione di potenza che ricorda quella che gli stessi Usa misero in campo in un Mediterraneo tardo ottocentesco che da allora divenne contendibile non solo alle potenze europee – in occasione della crisi marocchina del primo Novecento – e che darà oggi allo scenario israeliano un orizzonte determinato dallo scontro globale e non locale di potenza.

Del resto, ciò che va inverandosi nell’Indo-Pacifico sta appunto a significare come siamo dinanzi a un gioco di potenza ormai insopprimibile a livello mondiale. Tutte le chiacchiere sulla globalizzazione devono giungere a comprendere quale folletto avvelenato si sia scatenato dalla lampada di Aladino delle transizioni d’ogni specie…

L’India attira, per esempio, sempre più la nostra attenzione, ma il dibattito più saliente e proiettivo dei dilemmi dell’epoca è quello che si svolge in Giappone tra gruppi intellettuali, prima che economici. Perché è lo spirito che decide nella storia e non l’economicismo totalizzante.

Da un lato si staglia la figura di Shinichi Kitaoka, erede di Abe e convinto che solo un’Unione del Pacifico Occidentale che comprenda l’Indonesia, la Sud Corea, l’Australia e gli Stati insulari del Pacifico potrà bilanciare la potenza cinese (si tratterebbe, infatti, di porre in gioco la potenza congiunta di Vietnam, Filippine e Indonesia in primis). Dall’ altro lato, ecco la scuola accademica, e “conservatrice” quanto mai, di Yoshihide Soeya, decano degli studi di relazioni internazionali all’Università Keio, il quale auspica la ripresa di un ruolo autonomo giapponese destinato a raccogliere, attorno al Sol Levante, le medie potenze: esse così potrebbero essere integrate nel gioco di potenza indo-pacifico. Consegnando in tal modo al Giappone un ruolo di guida, grazie alla capacità che si renderebbe manifesta di limitare i danni della contesa sino-nordamericana, contestando la postura di deterrenza nucleare che secondo Soeya non può più essere affidata a un Giappone ormai incapace di svolgere un ruolo unipolare nell’aerea, ma tuttavia ancora in grado di costruire un concerto indo-pacifico di potenza, così neutralizzando tanto il dominio cinese, quanto quello nordamericano in versione unipolare.

Anche in questo caso il dibattito è fortissimo ed è diretto a rischiarare – con un che di terribile e di impietoso – il dilemma dinanzi a cui la storia mondiale ci ha nuovamente posto: può la guerra nucleare essere evitata minacciando la pace grazie al divampare di guerre locali che scaricano il conflitto di potenza senza che questo tracimi in un conflitto permanente e planetario? E ancora: il mondo di oggi, sempre più dominato da ideologie sacrificali e oppositive e violente che dilagano sempre più, financo negli umani comportamenti quotidiani, può far a meno della guerra, quando il tardo capitalismo che questo stesso mondo domina giunge a sfruttare la terra e il vivente per superare le sue intime contraddizioni tra sviluppo ineguale, ricerca della centralizzazione risolvente e l’aggressività che promana dalle sue interne contraddizioni?

La riposta a questa domanda segnerà il destino dell’umanità in tempi brevissimi…

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