C’è qualcosa di strano nella lunga crisi internazionale che si è aperta con l’attacco russo all’Ucraina due anni fa e si è aggravata con i terribili eventi del 7 ottobre scorso. Guerre crudelissime che mietono migliaia di vittime sono alle nostre porte rendendoci a dir poco sgomenti. Guerre che uccidono vite innocenti, riducono le città a cumuli di macerie, intere comunità distrutte, che colpiscono l’economia internazionale costringendo il mondo a cambiare. E dall’altra una sorta di rassegnata impotenza internazionale davanti a questo scorrere continuo del dramma. Come se le organizzazioni internazionali, le grandi potenze niente potessero davanti ad un decorso che sembra ineluttabile. Ma di cui nessuno vuole parlare.
Insomma sembra che tutti conoscano il finale della storia, delle storie sarebbe il caso di dire, ma invece si continui a far finta di niente. Come se riconoscere la verità fosse una negazione delle ragioni degli aggrediti.
Dopo due anni, la Russia è all’attacco. Ha conquistato Avdiivka dopo mesi di battaglia sanguinosissimi. E l’esercito ucraino si è ritirato malamente dal campo, in una ritirata disorganizzata. A dirlo non sono fonti russe ma occidentali. New York Times, The Hill, Washington Post, ABCNews, Time. Tutti affermano la stessa verità. L’iniziativa è passata nelle mani russe, non si parla più di stallo, l’Ucraina manca delle risorse strategiche per far fronte all’enorme consumo di soldati, munizioni, mezzi che invece sono a disposizione di Mosca.
Non si dice questo per dire che l’Ucraina deve arrendersi, che Putin aveva le sue buone ragioni ad invadere quella martoriata “terra di sangue”, padre della patria che per giunta non ha esitato a sacrificare decine di migliaia di giovani russi ai suoi sogni neoimperiali.
Quello che si sta chiedendo è un doveroso bagno di realismo, di chiarezza strategica e quindi morale.
Sono già due le sconfitte ucraine. Il fallimento della sbandierata controffensiva d’estate e adesso la caduta di Avdiivka. Qual è allora l’obiettivo di Zelensky, degli Stati Uniti, della Nato e quindi nostro? Davvero a Washington qualcuno pensa di sconfiggere la Russia e di vederla battere in ritirata? Magari chiedendo scusa all’ONU? Putin è un autocrate che si sente accerchiato, con una missione storica, che si è infilato in un conflitto con una strategia incerta, a capo di un Paese insensibile alle “debolezze” delle democrazie liberali. Il caso Navalny e gli altri suicidi o morti eccellenti sono la riprova. Un enorme paese disposto a sopportare, quasi senza protestare, sacrifici di vite inimmaginabili per noi che viviamo nella postmodernità.
Veniamo a Gaza. Qui lo scenario è, se possibile, ancora più caotico. Un numero incredibile di attori si affolla sulla scena con una pluralità di voci che rendono il quadro un puzzle intricato. L’equazione da risolvere sembra avere troppe incognite da affrontare in una sola soluzione. Per Israele, sicurezza-deterrenza, riconoscimento della propria esistenza, interlocutori credibili e non terroristi. Per i palestinesi, leadership non corrotta, riconosciuta e capace di visione realista e strategica finalizzata al raggiungimento dell’indipendenza.
Alla soluzione mancano troppe risposte. E intanto la discussione pubblica sembra incagliata. Come se le azioni attuali fossero neutrali, come se le macerie non fossero anche morali, destinate a produrre altri drammi.
Come si può pensare di costruire qualcosa che assomigli alla pace dopo i fatti terribili del 7 ottobre, fatto di stupri e atti di varia macelleria? Dopo che tutto l’apparato di sicurezza di Tel Aviv è collassato in modo incredibile dimostrando una fragilità paurosa? Mentre Israele sta affrontando la guerra più lunga (ci si avvicina al quarto mese) che abbia mai combattuto contro un nemico nascosto nei 300 chilometri di tunnel che ancora, nonostante l’assoluta disparità di forze, resiste e tiene prigionieri decine di ostaggi? Con Hamas che detta le condizioni di una tregua? Come è possibile che qualcuno pensi ancora alla possibilità dei due Stati dopo 27mila morti palestinesi su 1 milione e 600mila abitanti?
Il fatto è che un’ azione militare come l’attacco di Hamas e la conseguente risposta di Israele non possono avere le caratteristiche di atti militari risolutivi. Cioè non hanno le caratteristiche per loro natura di portare alla soluzione politica del conflitto. Hamas non poteva sconfiggere Israele, né Israele con la distruzione militare di Hamas può trovare una soluzione al problema palestinese e contemporaneamente alla propria sicurezza.
Le guerre in Iraq e in Afghanistan hanno insegnato, ancora una volta, sulla pelle degli americani e di quei disgraziati popoli, che in una guerra di contro-insorgenza non si può separare la condotta militare dall’obiettivo politico. Che la messa in sicurezza della popolazione deve essere al centro delle strategia, che la conquista “dei cuori e delle menti” è il primo obiettivo. Si vadano a rileggere i testi del generale Petraeus, di David Kilcullen, il capitano neozelandese ritenuto uno dei massimi esperti di contro-insorgenza al mondo; i manuali dei Marines sulla così detta COIN. Oppure il primo volume disponibile anche in rete della guerra in Iraq scritto da una sorta di ufficio storico dell’esercito americano. Pagine illuminanti che spiegano bene come in questo tipo di guerre non ci sia un “prima”, fatto di azioni militari focalizzate su di un successo senza pensare alla politica, separato da un “dopo” quando si materializzano le soluzioni.
E invece leggiamo che a mantenere uno straccio di vita possibile nella Striscia sono ancora funzionari di Hamas, che gli aiuti sono distribuiti da quella organizzazione, che la vigilanza anche a Gaza nord è assicurata dalle forze di sicurezza di Hamas. Che insomma Israele non si è fatta carico dell’organizzazione della società palestinese.
Concesso che sia raggiungibile l’obiettivo di distruggere Hamas, qualsiasi cosa voglia dire, rimangono non chiare due conseguenze politiche dell’azione militare di Israele.
La prima. Un numero così alto di morti civili e distruzioni quale stato d’animo produce nella popolazione palestinese, o meglio nei vari settori – Gaza, Cisgiordania, Israele, diaspora – in cui sono divisi i palestinesi? Rabbia, anomia, spirito di vendetta? O addirittura radicalizzazione, come nel caso dell’ISIS sunnita sorta dalle ceneri del post Saddam?
La seconda. Quale autorità civile e politica potrà amministrare quei territori rispettando la sicurezza di Tel Aviv? L’autorità di un Hamas ripulito? La corrotta ANP? Lo stesso Israele? E soprattutto quale futuro ci sarà per quei due popoli?
La storia insegna poco. Ogni conflitto è diverso dall’altro. Ma qualcosa vorrà dire se gli Stati Uniti, nella seconda guerra mondiale, iniziarono a pensare al dopoguerra, al da farsi una volta caduta Berlino, già durante i primi anni del conflitto.
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