L’apocalisse si abbatté sul nostro Paese: una tempesta giudiziaria spazzò via la nazione nata dopo il 1945 e prosperata in due fasi, la prima negli anni 50 e 60 del secolo scorso e la seconda negli anni 80.

Dal 1980 il Paese lascia dietro di sé un periodo duro: dopo il terrorismo e la crisi energetica gli italiani hanno voglia di vivere e produrre. Inizia il mito degli anni 80, un po’ edonista ma anche molto italiano: parte tutto con il Mondiale di calcio in Spagna, da cui arriva il messaggio che l’Italia può anche vincere. Il Paese è letteralmente trascinato da quella vittoria, che darà uno slancio notevole. Il resto lo farà la televisione. I nuovi programmi sono moderni, incarnano il sogno milanese ed esaltano la genialità italiana. Imprenditori come Berlusconi e Gardini hanno visioni nuove.



Gli italiani ci credono. Bettino Craxi è l’uomo forte, modernizza il Psi e si permette perfino di mettersi dietro il Regno Unito nelle statistiche economiche: correva l’anno 1987. “Italia quarta potenza” titolavano i giornali italiani, Francia e UK dietro. Nel 1991 il Paese era al centro del nuovo assetto mondiale post-Guerra fredda. Era il secondo miracolo italiano, dopo quello degli anni 50, targato Enrico Mattei. Il fondatore dell’Eni ci fece entrare con la sua creatura nel G-7, l’Italia potè guardare tutti dritto negli occhi grazie alle sue industrie. I difetti c’erano, ma nello stesso periodo un certo Adriano Olivetti (spesso al telefono con Enrico Fermi) rivoluzionò il modo di fare impresa. Eni e Olivetti furono copiate da Usa, Giappone, Russia e poi Cina. I nostri tecnici spopolarono e l’ITI diventò meta di pellegrinaggio internazionale. Era l’Italia laboriosa che osava, che si metteva in gioco e che con Raul Gardini negli anni 80 anticipò tutti con la chimica: il ravennate s’inventò la benzina verde prima di tutti. Bettino Craxi cercò di far rivivere il progetto di Enrico Mattei con l’Enimont: capitale pubblico ed impresa privata, un ibrido che avrebbe potuto essere un vero colosso mondiale, ma fu azzoppato ancor prima di partire.



Lo stesso Gardini con il suo Moro di Venezia fece sognare: anche gli americani si potevano battere, la Coppa America non fu più la stessa: la tecnologia Montedison ispirò Prada nel 2000, ma la magia nacque in quel 1992. Fu anche il canto del cigno d’un periodo storico che ci auguriamo ripetibile.
L’Italia in quegli anni venne silurata da più parti, non solo mediante Mani Pulite: le fu smontato quel modello tanto imitato, fu spuntata e messa al guinzaglio, umiliata. Francia e Germania tornarono a fare la voce grossa e la nostra classe politica non osò più, anzi fu l’appiattimento l’unica strategia contemplata. Il neoliberismo della nuova Ue andò a sostituire le politiche keynesiane della Cee, una comunità che collaborava. Mai termine fu più consono, fu un grave errore cambiarlo con altro.



Enrico Mattei aveva invitato gli italiani a sognare e osare, la nuova generazione politica sopravvissuta a Tangentopoli s’adoperò a mortificarli con improbabili “compiti a casa”, culminati con la bugia maxima: l’Italia come la Grecia. Nulla contro gli ellenici, ma l’Italia settima potenza mondiale paragonata dalla nostra stampa a uno stato con il Pil delle Marche ancora brucia. Lombardia e Veneto valgono industrialmente l’intera Svezia.

I primati del “nuovo Rinascimento” furono pazzeschi quanto insabbiati: il Pc nacque di fatto alla Olivetti (fu una copia di quei prototipi a portare l’uomo sulla Luna), l’Eni rivoluzionò il modo di fare impresa energetica, l’Italia fu terza potenza spaziale tanto che ancora oggi può vantare una filiera autonoma in grado di costruire un satellite senza utilizzare componenti costruiti all’estero. Ci fu poi il genio di Faggin a cui dobbiamo microchip e touchscreen. L’Olivetti portò il design nell’industria cinquant’anni prima di Apple. Storie raccontate in qualche documentario che pochi italiani conoscono. Ma le agenzie di rating fecero il resto. Il Paese però non si piegò, grazie a quei 9mila miliardi di patrimonio degli italiani, un petrolio famigliare, costruito dalla fatica di generazioni che di fatto “assicura” quel debito pubblico che in un sistema non neoliberista serve a garantire servizi pubblici di qualità e molto altro. Quel patrimonio ha tenuto l’Italia a galla, insieme alla tenacia delle nostre aziende, aiutate molto meno rispetto alle francesi e alle tedesche, che godono di veri e propri aiuti di stato.

Lo spauracchio però si chiama spread, un differenziale che pesa poco in termini economici. La migliore dimostrazione che lo spread non dipende dalle fortune dei governi ma dall’azione della Bce si è avuta con le azioni di Draghi: se a Francoforte decidono di continuare a comprare i titoli di Stato sul mercato secondario non c’è ragione per cui gli investitori dovrebbero fuggire dai BTP e lo spread continuerà a rimanere sotto controllo. Lo spread calcolato sui titoli tedeschi inoltre è anche particolare come termine di paragone, visto che la Corte dei Conti di Germania ha stabilito che il bilancio federale è stato falsato. Dal 1992 il Paese Italia paga una narrazione tossica, slegata dai veri asset strategici e spesso condita da insolite statistiche in cui gli italiani risultano sempre ultimi in qualcosa. Un po’ strano, visto che la Spagna, nemmeno nel G20, in tali statistiche non compare mai, come molti altri Stati ben più disastrati del nostro, tra le prime dieci nazioni della Terra da più di cent’anni.

L’Italia delle buone notizie è puntualmente omessa: quanti italiani sanno che il loro Paese è il primo in fatto di economia circolare e riciclo in Europa? Quanti italiani sanno che il primo produttore di grandi navi al mondo è Fincantieri e che Enrico Fermi fu il primo a teorizzare un nucleare civile? Non si tratta di nazionalismo, più d’amor patrio e d trasmissione culturale. A Enrico Mattei fu ordinato di chiudere l’Agip, non solo non lo fece, fondò l’Eni. Quanti oggi avrebbero quel coraggio? Quanti andrebbero raccontando che “se lo ordina tizio” allora sarà giusto? Senza quella scelta che portò energia a bassi costi non ci sarebbe mai stato benessere per gli italiani.

Perdiamo punti di Pil a causa di questa narrazione tossica, perché generiamo sfiducia, ci descriviamo male e di fatto danneggiamo le nostre aziende. Va spezzata con serie campagne d’informazione ragionata. In comunicazione perde sempre chi la narrazione la subisce. Dobbiamo scegliere cosa essere, un grande museo o una nazione che si conosce e produce? Gli italiani meritano un Paese all’altezza, che non s’accontenta.

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