L’Italia è il Paese dove la cultura greco-latina si è intrecciata per secoli con la religione cristiana. Un tale incontro si è declinato non solo nella lingua e nelle eredità culturali, ma anche nella sensibilità condivisa, nei principi morali, fino a toccare gli stessi valori estetici. Proprio per questo le scelte compiute dalla nostra avanguardia insegnante in nome dell’inclusione non finiscono di stupire. Ma soprattutto non finiscono di procurare danni alla nostra cultura, non senza una punta di aperta malafede che, proprio per questo, le rende decisamente insopportabili.



La recente decisione di una scuola media di Treviso che, per non offendere le famiglie di religione islamica, ha deciso di rimuovere dal proprio programma lo studio di Dante e della sua Commedia risponde agli stessi criteri attraverso i quali, come testimonia l’articolo di Marco Ricucci sul Sussidiario del 2 giugno, si è deciso in alcune scuole primarie di non allestire i presepi e di far scomparire tutti i riferimenti cristiani dalle recite natalizie.



È difficile vedere in tali improvvide iniziative della nostra avanguardia educativa la sola presenza del semplice slancio inclusivo. In realtà, in nome dell’inclusione, si pone mano a – o si subisce – una vera e propria operazione di politica culturale e di revisione ideologica che passa tanto più inosservata quanto più si rivolge ad aspetti della nostra cultura già in aperta crisi.

Chi potrebbe infatti negare quanto Dante, al di là dell’interesse degli ultimi anni, sia stato ignorato per decenni? Chi potrebbe contestare il rinvio sostanziale dell’intera cultura greco-latina ad un’area specialistica del sapere, riservata ai soli licei classici ed ai soli dipartimenti universitari di lettere e filosofia? Chi potrebbe contestare quanto l’eredità cristiana non sia, oggi, che poco più di un semplice residuo della tradizione? Chi potrebbe negare quanto le chiese siano attualmente sempre più vuote ed i seminari sempre più disertati? Pertanto perché indignarsi se, in fin dei conti, non si mette in soffitta che quanto è stato già da tempo liquidato nella nostra società secolarizzata?



Tutte queste osservazioni sono legittime, ma non sufficienti ad esaurire l’argomento. Al di là della loro esplicita consequenzialità e dell’apparente marginalità delle scelte compiute (specialmente se accostate ai gravi problemi attuali), dietro le rimozioni dei residui cristiani si attivano delle preferenze non irrilevanti e, soprattutto, dense di conseguenze.

Chi dice infatti che tutte le tendenze appena elencate rappresentino altrettante linee di sviluppo di una società in crescita e non siano invece i segnali di deriva profonda di una società moralmente in crisi? Chi dice che tutti gli elementi di declino appena citati, e quindi di perdita culturale, rappresentino inevitabilmente il destino al quale siamo di fatto avviati e non vadano interpretati invece – ed al contrario – come altrettanti segnali di una deriva storicamente determinata dalla quale possiamo uscire?

In realtà, attraverso la cultura della sottrazione, scambiando le marginalità culturali e i declini della sensibilità religiosa per altrettanti segni di trasformazione inevitabile, si pone mano ad un’operazione di censura nella quale si rimuove ciò che, di fatto, si reputa non essenziale e di cui la stessa marginalità costituirebbe la prova. Dietro l’elisione di Dante dai programmi e la rimozione dei riferimenti alla cultura cristiana dal calendario si compie un’opera di svuotamento culturale, dando vita ad un’identità nazionale tanto parziale quanto inconsistente.

Si compiono qui infatti tre errori fondamentali.

Il primo è quello di non comprendere come la rimozione di uno o più aspetti di ogni singola cultura – e la sua “rivisitazione” in forma politicamente corretta – finiscano per banalizzarla, rendendola evanescente e privandola di qualsiasi attrattiva. Il nascondimento dell’eredità cristiana porta infatti ad elisioni sempre più imbarazzanti. Dopo la rimozione dei crocifissi dalle aule, quella dei presepi dalle scuole e l’elisione della radice religiosa nella festa del Natale è la volta di Dante e della sua matrice cristiana ad essere messi da parte. Si tratta di altrettanti depennamenti che danno vita ad un profilo identitario tanto più falso quanto più, nello sforzarsi di essere politicamente corretto, svuota la cultura della propria sostanza.

Il secondo errore – ancora più grave – è quello di adottare una “logica della sottrazione”, dove si provvede a rimuovere e nascondere tutti gli elementi della cultura nazionale che possano turbare la sensibilità altrui. Una logica di questo tipo non solo svilisce l’identità nazionale ma soprattutto, una volta diffusa l’immagine adulterata, opaca e inconsistente, della nostra cultura, induce gli immigrati stessi a vedere come convincenti tutte le prese di distanza possibili da una simile paccottiglia culturale. Nulla infatti è meno attraente dall’integrarsi in un Paese abitato dal nulla, dove tutto è “fluido” ed eternamente reversibile. In un simile Paese si può provvisoriamente abitare costretti dalle circostanze, ma non certo integrarsi.

Così, il delirio del politicamente corretto, alterando la realtà culturale e rendendola priva di qualsiasi interesse, anziché produrre inclusione lascia aperta la porta alle revisioni dei fondamentalismi di qualsiasi tipo. Dinanzi alla sconcertante banalità ed alla manifesta inconsistenza che il Paese di accoglienza finisce con il presentare, l’inclusione, quando si produce, viene volta al ribasso, tendendo unicamente alla massimizzazione dei vantaggi strumentali, senza il necessario incontro con una cultura da apprezzare ed una civiltà da riconoscere.

Il terzo errore, in sé decisivo, consiste nell’ingegnarsi ad amputare le proprie eredità culturali. Una volta mondato da tutto ciò che potrebbe apparire scorretto, sono le nuove generazioni nella loro interezza – costituite cioè tanto dai figli di genitori italiani quanto dai figli di quanti provengono da altri Paesi – che finiscono per apprendere un passato depurato da ogni ricerca della verità. Liberandosi di Dante e della risposta cristiana si toglie alle nostre eredità culturali il più potente tentativo di risolvere, attraverso la religione, il dramma della precarierà dell’esistenza, tanto di quella personale quanto di quella della propria collettività. La storia si riduce così al puro avvicendamento delle élites di potere ed al semplice susseguirsi degli ornamenti estetico-letterari che le hanno accompagnate. Una volta ridotta ad un tale stadio, questa non può finire che con l’essere ignorata ed è un’intera società a separarsi dal proprio passato, la cui conoscenza è ritenuta semplicemente come non essenziale.

È proprio in quanto collabora ad un tale esito che l’attuale cultura della sottrazione compie danni irreparabili, nella più completa indifferenza.

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