Renzi e Conte raccolgono gli stracci volati il giorno prima, quando la quasi-crisi di governo ha vivacizzato le prime pagine e alzato l’asticella dello show-down politico. Renzi non vuole Conte, ma deve tenerselo per non sparire dalla scena; Conte, dal canto suo, è costretto a tenersi Renzi perché – è filtrato ieri – i numeri per un’alternativa vanno e vengono. “L’incidente sulla prescrizione è chiuso” ha detto l’autorevole Dario Franceschini, ministro e capo-delegazione Pd nel governo.
Nondimeno i conti con una possibile crisi si fanno, eccome. Soprattutto, con la tentazione di andare alle urne per evitare il taglio dei parlamentari. Ma sarebbe fattibile? Contrariamente alle opinioni che vanno per la maggiore, sì: si può andare al voto anche se la macchina del referendum costituzionale del 29 marzo è già avviata, spiega Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo.
Professore, la crisi di governo pare scongiurata, nello stesso tempo però la tensione nella maggioranza resta alta, Renzi è ancora intenzionato a sfiduciare Bonafede e Iv ha già votato più volte con l’opposizione.
Il comportamento di Renzi non appare pienamente compatibile con la partecipazione alla coalizione di governo; d’altra parte nella tradizione italiana un atteggiamento simile non è insolito. Infatti, è una tradizione consolidata che dal giorno successivo alla nascita di un governo di coalizione le diverse parti giochino a distinguersi per paura che il loro consenso elettorale sbiadisca a causa dell’azione di governo.
Ed è quello che sta accadendo con il leader di Italia viva.
Nel caso di Renzi il pericolo è maggiore, perché Iv non è mai stata tastata sinora dalle elezioni e il timore è che possa non entrare neppure nel prossimo Parlamento. Questo genera l’irrequietezza di Matteo Renzi. Sarebbe, però, uno scivolone arrivare sino alla crisi vera e propria e mettere il Presidente della Repubblica di fronte ad un vero e proprio ginepraio.
Ci sono due elementi che si tratta di comporre. Il primo sono i segnali provenienti dal Quirinale. In caso di crisi, Mattarella dovrà per forza verificare l’esistenza di una maggioranza alternativa. Però ha fatto capire che se tramonta la coalizione che sostiene il Conte 2, c’è solo il voto.
Certamente, se viene dichiarata la fine della coalizione di governo, perché un gruppo che ha i numeri fa venire meno la maggioranza anche in una sola Camera, il Presidente della Repubblica, di fronte alle dimissioni del Presidente del Consiglio, non può non mettersi al lavoro per risolvere la crisi di governo; significherebbe consultazioni e verifica di una possibile maggioranza – non dimentichiamoci che si sta parlando già di “responsabili” – e individuazione di un possibile nuovo Presidente del Consiglio.
Come si concilia questa prospettiva con lo scioglimento?
Mi sembra ovvio che la strada accennata possa dare luogo a una certa stanchezza nel paese e in un’opinione pubblica divisa a metà, con la maggioranza che vorrebbe votare anche per chiudere alcune esperienze politiche ibride, populiste e, soprattutto, giustizialiste. Di qui l’ammonimento alle forze politiche alla prudenza da parte del Capo dello Stato.
L’altro elemento è il seguente. Da più parti si sostiene che non si può votare subito, prima di settembre, perché la macchina del referendum costituzionale del 29 marzo è ormai avviata. È così?
Non è così; questo è proprio il ginepraio al quale alludevo prima. In base all’art. 4 del testo della legge costituzionale “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, le nuove disposizioni costituzionali “si applicano a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale”.
Questo cosa implica?
Se la crisi di governo si aprisse e dovesse culminare nel decreto di scioglimento delle Camere prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale, le elezioni verrebbero indette con riferimento alla composizione pregressa delle Camere (630 deputati e 315 senatori). Ora, la legge costituzionale non entra in vigore il giorno delle votazioni del referendum costituzionale, bensì – sempre che l’esito di questo sia favorevole – solo dopo la promulgazione, la pubblicazione e la vacatio della legge costituzionale.
Continui.
Questo significa che si potrebbe dare l’evenienza che il decreto di scioglimento intersechi il procedimento referendario, rinviando di fatto l’efficacia delle nuove disposizioni costituzionali, anche se molto concretamente le elezioni dovessero tenersi quando già il risultato del referendum costituzionale sia noto e la legge costituzionale pubblicata. Né in un’evenienza del genere sarebbe necessario attendere l’assolvimento della delega legislativa contenuta nella legge 51/2019, per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari. Infatti, allo stato la legislazione elettorale è in linea con le attuali disposizioni costituzionali.
Circola anche questa ipotesi: crisi e governo tecnico con l’obiettivo di portare il paese prima al referendum e poi al voto politico.
Il problema è che in questo modo si metterebbe in difficoltà il Presidente della Repubblica, che non auspica certamente la crisi di governo per ruolo istituzionale: se questa dovesse concretizzarsi farebbe fatica a risolverla con un nuovo governo, anche e soprattutto cosiddetto “tecnico”, e dovrebbe gestire in sovrapposizione due procedure che interferiscono tra loro: quella relativa alla legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari e quella derivante dalla crisi di governo, dallo scioglimento del Parlamento e dalle nuove elezioni.
Non sarà che i partiti, anche quelli che lo hanno voluto, si sono pentiti di aver approvato la riduzione dei parlamentari?
Non è una supposizione. È sotto gli occhi di tutti che le forze che sembrano riscuotere il consenso maggiore non sono quelle che hanno proposto il taglio dei parlamentari. Se dovesse passare, inoltre, una legge elettorale proporzionale con clausola di sbarramento al 5%, ben tre partiti, FI, M5s e Iv, correrebbero il rischio di non entrare in Parlamento o dovrebbero accontentarsi del famigerato “diritto di tribuna”.
(Federico Ferraù)