SINGAPORE – Prima o poi doveva succedere, ma non immaginavo così presto. L’altra sera un robot mi ha servito la cena, nel senso che ha portato al tavolo le diverse portate e raccolto poi posate e piatti da lavare, muovendosi sicuro e veloce in sala schivando ostacoli e clienti e rientrando in cucina senza indecisioni. Se aggiungete che l’ordinazione era stata fatta con il telefonino con cui si è poi anche automaticamente pagato il conto, così come il taxi chiamato a distanza che ha risposto subito precisando i minuti di attesa necessari, il percorso da fare, costo e tempo di impiego è facile capire che qui tutto è diverso rispetto a casa nostra.
Il “qui” è Singapore, capitale finanziaria del Sudest asiatico, da secoli crocevia di razze e di traffici, dove non c’è una carta per terra. Se ci fosse – al pari delle foglie – un apposito robottino-spazzino passerebbe a raccoglierle, così come un altro cattura “a vista” le immondizie che quei trogloditi di malesi potrebbero, a monte, gettare nei fiumi. Va aggiunto che la polizia è dotata di robot che possono fare uno screening dei passanti e capire chi abbia la febbre (Covid?) o sia ricercato. Non ho ben capito come questo possa tecnicamente succedere, ma gli amici italiani di qui mi dicono che è effettivamente così.
Era qualche anno che non passavo da Marina Bay – il centro pulsante di Singapore – e tutto è ancora più alto, lucente, ricco. All’ex Pier (molo) della dogana le foto in bianco e nero testimoniano di quando transitava riverita la regina Elisabetta con Filippo al seguito sbarcando dal Britannia e degnandosi di salutare i sudditi, ma è davvero roba di secoli fa. Piuttosto sembra che i ricchi del mondo siano arrivati tutti qui, in questa grande Montecarlo dove le banche sono ben di più di quelle svizzere e in aeroporto ti accoglie una meraviglia di cascata alta 37 metri in un contesto di jungla tropicale (vera) per farti subito capire che il futuro, almeno rispetto alla vecchia Europa, è già decisamente arrivato da tempo.
Tutto bene, quindi? Forse per i giovani bene abbienti e che possono permetterselo, ma francamente io mi sono trovato anche a disagio. Innanzitutto se non sei “connesso” non esisti, non puoi muoverti e non solo per prendere la metropolitana (automatizzata) ma per una qualsiasi necessità. Certo la boutique di Luis Vuitton sembra una meravigliosa isola che sorge dall’acqua e nello shopping-mall tra decine di marchi di moda italiani (o ex italiani) circolano le gondole finte tra canali veri e coperti stile Las Vegas, ma devi dimostrare una padronanza assoluta dell’informatica o sei inghiottito nel nulla.
Non tutto luccica dietro la facciata, e non tanto a Singapore che – relativamente piccola com’è – riesce a soddisfare i bisogni dei suoi abitanti purché lavorino e “producano” (e pur con prezzi da capogiro per tutto, dall’affitto al cibo, impossibili da sostenere per la gran parte della gente), ma andando in giro per il Sudest asiatico dove tecnologicamente tutto è comunque più efficiente, veloce, pratico, tocchi con mano che tra tanti nuovi ricchi vi sono sempre (e forse di più) legioni di poveri. A Singapore devi allontanarti dal centro per vedere i quartieri-formiche, a Bangkok crescono ovunque i palazzi oltre i 50 piani, ma chi abitava lungo i canali e nei quartieri radicalmente ristrutturati resta senza casa e deve arrangiarsi. Anche in Europa si avvertono questi contrasti, ma è proprio nel Sud-est asiatico che si percepiscono di più queste distanze sociali in quello che sarà forse il mondo nei prossimi decenni, impostati – mai come ora – sulla moda e l’apparire ma anche sull’economia, il profitto e il consumo. Ovunque si colgono contraddizioni stridenti e incredibili, tra super lusso e miseria, tra onnipresente propaganda “green” e pesante distruzione ambientale.
Chai Saman, anziana di età indefinibile, è la mia fornitrice ufficiale di succo di frutta quando passo da Convent Road a Bangkok e per 30 bath (meno di un euro) me lo prepara su misura, ma la centrifuga ce l’ha solo tre giorni la settimana, visto che gli altri tre la divide con una collega, non potendo permettersi di comprarne una nuova: è l’antitesi del ristorante alla moda a poche decine di metri di distanza, dove i prezzi sono da due stelle Michelin in Italia e i clienti arrivano con l’autista in guanti bianchi, ma anche delle tante tavole calde dove il cibo sembra di plastica eppure la coda è ininterrotta.
Nelle città vedi però anche migliaia di negozi chiusi perché anche qui la gente va ormai ad acquistare nei centri commerciali che sono in periferia e ancora più grandi, luminosi e rumorosi dei nostri. Il Sudest asiatico è fatto così, “avanti” per molti aspetti, ma ancora arretrato per altri e quindi senza mezza misure. Vedi in giro sempre pochi vecchi (e da un po’; anche meno bambini) ma una infinità di giovani tutti frenetici e che nel telefonino hanno ormai il prolungamento delle dita. Una società in trasformazione veloce e profonda, dove il passato sembra sepolto con i suoi ritmi e le sue tradizioni, tanto che – ne è una conferma – nessuno o quasi segue più il periodo di meditazione del noviziato buddista visto che non c’è tempo, bisogna produrre e il “dio denaro” sembra aver vinto ovunque regnando sempre più incontrastato.
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