Il pd dirà no allepreferenze per non finire come de Luca in Campania
“C’è un sacco di gente che segue un sacco di gente, che è seguita da un sacco di gente…” è il nuovo tormentone che fotografa perfettamente la situazione della politica italiana. L’autore è Naip, un simpaticissimo concorrente di X Factor 20-20, anche lui con un considerevole seguito su YouTube.
Tutti i “commentatori”, cioè appunto tutta quella gente che pensa di essere seguito da un “sacco di gente”, hanno fatto appena a tempo ad incassare – come se nulla fosse – la sonora sconfitta per aver sostenuto il No al referendum sul taglio dei parlamentari e per aver previsto – complici i sondaggi da loro stessi foraggiati – il “colpo di spalla” al governo, che non rinunciano a dire la loro su come andrebbe fatta la nuova riforma elettorale e su come il Pd dovrebbe passare all’incasso del successo ottenuto.
I grandi giornali italiani – per quanto sia fastidioso dare ragione al direttore del Fatto Quotidiano, bisogna dire che ci sono proprio tutti: da Repubblica a Libero, passando per il Corriere e i giornali di Caltagirone, senza contare le new entry del Riformista e di Domani – hanno fatto campagna esplicita per il No come voto contro il populismo, il governo, l’anti-politica, il Pd troppo indeciso. Sappiamo come è andata.
Dopo aver rapidamente elaborato il lutto per la sconfitta al referendum già sono in azione, obiettivo: orientare le prossime mosse. Addirittura Repubblica si è inventata ieri di aver scovato un documento segreto, carpito nelle segrete stanze del Nazareno, scritto di proprio pugno dallo stesso Zingaretti, che elenca ben 10 punti da recapitare al premier Conte, con accluso il relativo avviso di sfratto. La notizia stamattina è poi scomparsa del tutto.
Ma secondo voi, proprio ora che Zingaretti incomincia a raccogliere qualche frutto dalla sua strategia – tanto denigrata e derisa – dovrebbe cambiare improvvisamente linea e metodo? Zingaretti non cambierà nulla dello schema unitario che ha perseguito fino ad oggi (unire il partito, tenere insieme la maggioranza), né passerà alla politica dei diktat nei confronti degli altri partner di governo. Il referendum e le regionali hanno aperto – nel loro inaspettato combinato disposto – la strada ad un periodo di stabilità della maggioranza giallorossa e rendono possibile alcune riforme concrete, prima fra tutte la riforma elettorale.
Il primo punto riguarda proprio il rispetto degli accordi sottoscritti ad agosto dello scorso anno. All’epoca i partiti della nuova maggioranza indicarono in un modello molto simile a quello tedesco – proporzionale con una alta soglia d’ingresso al 5% per ridurre i rischi di frammentazione – la soluzione in grado di mettere d’accordo anche i sostenitori del maggioritario. All’indomani del voto alcuni padri nobili del Pd (Veltroni e Prodi, in particolare) hanno sollevato il tema se era possibile ritornare a discutere di una legge “maggioritaria”. Zingaretti ha fatto sapere che non cambierà linea, resisterà ad ogni tentazione di ricominciare daccapo. Inaspettatamente è intervenuto a sostegno del rispetto dell’accordo lo stesso Renzi. Il fondatore di Italia Viva ha qualche preoccupazione sulla soglia del 5%, difficile da raggiungere con le sue attuali forze, ma fa buon viso a cattivo gioco. Si possono discutere correttivi ulteriori. Si possono aggiungere all’intesa nuovi temi importanti come la sfiducia costruttiva e il senato delle regioni, per mettere fine al bicameralismo. Ma non ha senso cambiare strategia proprio ora che la maggioranza è compatta e anche dal centro-destra arrivano segnali di distensione.
Altro discorso merita il tema della reintroduzione delle preferenze. Il Pd non può cedere su un punto essenziale. Che è insieme di trasparenza e di difesa del ruolo dei partiti. Basta dare uno sguardo rapido a cosa è successo nelle elezioni regionali del Sud dove il voto di preferenza l’ha fatta da padrone. Non solo la preferenza rappresenta il motivo principale della nascita di decine di liste civiche (“se non mi candidi nella tua lista mi faccio la mia”) ma anche negli stessi partiti la competizione è stata completamente falsata e si è risolta a vantaggio di figure senza un reale ruolo politico e che sembrano più dei “mediatori” con il potente di turno che dei rappresentanti di interessi reali. Impressiona la composizione del consiglio regionale della Campania, dove l’estesa maggioranza conquistata da De Luca non solo è fatta da microgruppi composti da uno/due consiglieri, ma dove il partito più grande, cioè il Pd, ha visto la sua rappresentanza dimezzarsi da 15 a 8 eletti. Se poi guardiamo all’identikit politico dei rappresentanti delle 15 liste civiche sembrano tutti uguali: moderati e centristi, signorotti rappresentanti al massimo di un piccolo territorio, macchina da voti ma senza tracce di un passato politico, spesso figli o mogli di ex potenti in pensione. Senza addentrarci nei possibili e più inquietanti scenari di infiltrazione da parte di forze criminose e potentati economici di vario genere.
Al momento manca una riflessione seria sul tema a mio avviso più importante, quello di una riforma dei partiti. Del resto se pensiamo di copiare il modello tedesco possiamo “importare” dalla Germania anche il loro modello di organizzazione dei partiti e sopratutto il modo come hanno risolto il problema del finanziamento pubblico della politica. Esemplare (nel senso che è un esempio fantastico, da prendere, studiare e copiare) il funzionamento del partito dei Verdi tedesco che collega l’iscrizione e il sostegno economico anche a singole campagne. Come dice Enrico Letta in una sua intervista di commento alle esternazioni di Grillo sul futuro della democrazia parlamentare, “il problema esiste”. Esiste nella misura che la partecipazione diretta dei cittadini aiutata dalla trasformazione digitale delle nostre società può rappresentare effettivamente una opportunità di rigenerazione della partecipazione politica. Proprio ora che la piattaforma Rousseau incomincia a non piacere più neanche agli stessi grillini è arrivato il momento di pensare ad una riforma dei partiti in chiave digitale. In poche settimane di lockdown abbiamo compiuto un salto tecnologico di anni, milioni di italiani sono passati allo smart working senza colpo ferire. Perché non immaginare una rapida trasformazione in chiave tecnologica dei partiti, una specie di Smart Politics, una nuova politica aperta a tutti, trasparente, veloce, concreta. Soprattutto utile. Fatta di partiti dove la partecipazione e l’impegno possono coesiste con una vita che non è più quella di quartiere o di fabbrica. Dove l’appartenenza è ad una idea, ad una battaglia da fare e non ad un gruppo di potere.