In un recente articolo pubblicato su Foreign Affairs, David Sacks ha aperto il dibattito circa le “lezioni” che la Cina sta apprendendo dalla guerra in Ucraina. Benché al momento non sia ancora chiaro come il governo di Pechino intenda rimodulare la sua strategia futura dopo la guerra che sta rivoluzionando gli assetti geopolitici planetari, è evidente che sta osservando con molta attenzione gli sviluppi del conflitto in corso.



David Sacks ha fatto notare che la Cina si trova di fronte a una serie di opzioni difficilmente ponderabili che si intrecciano con il destino di Taiwan. Quello che però al momento sembra certo è che nessuna delle opzioni sul tavolo può garantire il successo e che la reale valutazione delle conseguenze dell’avventurismo putiniano rappresenta un dilemma di difficile soluzione. Sono tanti gli analisti che ancora si interrogano sulla natura del rapporto che lega la Russia alla Cina e al momento nessuna risposta sembra sciogliere i dubbi circa la “strana alleanza” fra due potenze storicamente rivali. Da parte nostra abbiamo provato a spiegare che questa alleanza è il frutto della convergenza di interessi fra l’agglomerato di potere che ha al suo vertice Xi Jinping e il complesso militar-industriale che sostiene Putin, un legame personale in cui il destino dell’uno è legato a quello dell’altro.



A riguardo può essere utile dare uno sguardo alla cronologia della recente storia diplomatica per ricordare che l’incontro in cui fu sigillata la “partnership illimitata”, avvenuto durante le olimpiadi invernali di Pechino fra Xi e Putin, ha di fatto anticipato l’invasione dell’Ucraina. Sembra davvero difficile immaginare che Putin si sia mosso senza che il suo omologo cinese abbia dato il suo assenso. Questa ipotesi verrebbe confermata dal fatto che sul versante cinese le voci critiche verso l’invasione dell’Ucraina provengono da ambienti non allineati alla leadership di Xi. Recentemente Gong Fangbin, uno storico militare veterano della Guerra sino-vietnamita del 1979, ha scritto un articolo in cui definiva la guerra di Putin basata su “una logica imperfetta” e che addirittura faceva incamminare la Russa su una strada “da tempo abbandonata dalla civiltà umana”.



Il South China Morning Post, che ha riportato la notizia, ha fatto notare che l’articolo, subito rimosso dal sito sul quale è stato pubblicato, rappresenta il crescente dissenso che attraversa l’opinione pubblica cinese nei confronti della guerra in Ucraina. La Cina sembra alle prese con la ricerca di un difficile equilibrio fra il riconoscimento della legittimità delle aspirazioni tardoimperiali della Russia e la tutela dei propri interessi economici, che hanno un pilastro nella continuità della Belt and Road Initiative, la quale ha nell’Ucraina uno snodo di fondamentale importanza. Una posizione che punta all’impossibile compromesso fra la difesa dello status quo dell’ordine internazionale preesistente e il tentativo di forzare, in partnership con la Russia, la creazione di un nuovo ordine mondiale multipolare e indipendente dall’egemonia americana.

Recentemente il colonnello Zhou Bo ha sostenuto sull’Economist che gli obiettivi strategici di Cina e Russia sono sostanzialmente divergenti e che una lunga guerra d’attrito non conviene neanche agli Stati Uniti, che continuando a dissipare energie in Ucraina finirebbero per accelerare lo spostamento dell’asse geostrategico verso Oriente. Una tesi che lascia trasparire una forte nostalgia per l’epoca che ha preceduto quella attuale di radicale incertezza e instabilità.

Quello che Zhou Bo non dice è che se la Cina volesse favorire il ritorno dello status quo ante-guerra in Ucraina dovrebbe farsi promotrice di una mediazione, mostrandosi al mondo come una potenza responsabile dotata di un pervasivo soft power. Ma a quanto pare il governo di Pechino non ha né la forza né la volontà di impegnarsi in una simile azione diplomatica, in cui rischierebbe di giocarsi gran parte della sua credibilità.

Purtroppo per chi in Cina è critico nei confronti della stretta relazione fra Putin e Xi Jinping, Kissinger non è più il segretario di Stato americano e al momento niente sembra essere più anacronistico di un nuovo Congresso di Vienna. La dichiarazione di Biden che ieri ha palesato la volontà degli americani di difendere militarmente Taiwan in caso di aggressione cinese rende un ritorno al passato ancora più difficile, e rappresenta un altro passo deciso verso l’ingresso in un’epoca in cui la razionalità economica e diplomatica cedono definitivamente il passo alla logica di potenza. Minacciando uno “scenario simile a quanto sta accadendo in Ucraina” Biden ha reso evidente il nesso che collega la guerra in corso al destino di Taiwan, un legame molto stretto che solo l’opzione militare sembra essere in grado di sciogliere.

Xi Jinping sembra essere intenzionato a seguire la strada della riunificazione, ma a quanto pare questo scenario sembra essere più un problema per la società cinese che per gli Stati Uniti, i quali dal punto di vista militare e tecnologico hanno in mano tutte le carte per giocare la partita da una posizione di forza.

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