“Ho parlato con i direttori di quotidiani importanti: i dati reali dell’economia cinese stanno lentamente migliorando ma non sono buoni, dal punto di vista economico. Certo adesso non è il momento di fare la guerra con Taiwan. I cinesi devono uscire dalla lunga crisi dello zero Covid”. La Cina Popolare ha spiegato la sua forza navale davanti a Taiwan, mai il conflitto per annettere Taipei a Pechino per ora non scoppierà.



Lo spiega Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, profondo conoscitore della Cina come di Taiwan, che ha visitato proprio in questi giorni. I taiwanesi, tra l’altro, non si sono preoccupati più di tanto per le esercitazioni dei loro rivali. Anzi, hanno dato più fastidio le dichiarazioni del presidente francese Macron, secondo il quale l’Europa non dovrebbe intromettersi nelle questioni che riguardano i due Paesi asiatici.



Come ha vissuto Taiwan questi giorni di tensione dovuti allo spiegamento di forze di Pechino?

Ho partecipato a un convegno sulla libertà religiosa e ho avuto modo di incontrare sia il presidente dello Yuan legislativo, cioè del parlamento, sia con la presidente del Control Yuan, che è l’agenzia di controllo a Taiwan. Oltre ad aver tenuto lezioni in quattro università ho visitato i principali quotidiani e le principali stazioni televisive. Devo dire che l’ultimo giorno è stato difficile perché a partire dal presidente del Control Yuan, la terza carica dello Stato, c’è una forte irritazione per le parole di Macron. Quello che ha dato fastidio sono state non solo le sue dichiarazioni ma anche come sono state amplificate e anche un po’ manipolate dalla stampa della Repubblica Popolare Cinese. Naturalmente io e i miei colleghi europei abbiamo detto che, pur parlando per noi stessi, non ci riconosciamo nelle parole di Macron, ma consideriamo che oggi si vive in un mondo interconnesso, in cui quello che succede a Taiwan ha risonanze mondiali.



I taiwanesi hanno temuto un attacco da parte dei cinesi?

Questo è il mio settimo viaggio a Taiwan, il primo è stato vent’anni fa: i taiwanesi  sono abituati a questa situazione di stop and go e di crisi continue, quindi non c’è nessun panico né per le manovre navali né per le periodiche dichiarazioni di Xi Jinping. Loro convivono con questa situazione, che sanno essere precaria e pericolosa, con una buona dose di serenità. Però certamente tengono d’occhio il panorama internazionale e la cosa che ha dato più fastidio sono state le dichiarazioni di Macron.

Ma questa guerra, alla fine, è imminente o no?

No, la guerra non è imminente, nel senso che queste manovre cinesi vanno avanti periodicamente da decenni. Nessuno pensa tra gli analisti, i professori locali, che sia il momento per la Cina di fare una guerra. Checché se ne dica, Pechino ha avuto un notevole peggioramento di tutti gli indici economici per la politica zero Covid: ne sta faticosamente uscendo. Certamente non è il momento di fare guerre. Ripeto, questi war games sono venti o trent’anni che i cinesi li rifanno periodicamente. Poi Taiwan, come ci ha detto il presidente del Parlamento, vive con una spada di Damocle sulla testa da quando esiste. Ma al di là dell’attentissima osservazione dei minimi segni di solidarietà o meno da parte dell’Europa, degli Usa nonché del Giappone e dell’Australia, non ho percepito una paura maggiore della paura di bassa intensità che continua da almeno trent’anni.

Si sentono difesi dagli Usa, dall’Occidente?

Si sentono difesi dagli Usa con un punto interrogativo sulla politica isolazionista che potrebbe uscire dalle prossime elezioni. Dagli europei un po’ meno e certo dichiarazioni come quelle di Macron non aiutano. Naturalmente tutto questo ha dei costi per l’Europa, perché le persone di cui si fidano di più sono quelle che loro tenderanno a privilegiare anche sugli affari.

Affari sui microchip?

Sì, gli affari sui semiconduttori uno li fa di più con quelli che percepisce come amici politici. Credo che il Governo italiano, che ha espresso solidarietà a Taiwan, abbi fatto bene anche in questa chiave economica, perché poi alla fine le relazioni economiche seguono quelle politiche.

L’Italia tra l’altra ha inviato nell’Indo-Pacifico la nave Morosini per una missione di libera circolazione e dovrebbe inviare a fine anno anche la portaerei Cavour con altre navi che fanno parte della sua squadra.

L’Italia è entrata in una situazione più delicata del solito con la Via della Seta, dalla quale spero che l’attuale Governo riesca a uscire in modo indolore, dicendo ai cinesi che tutta una serie di partnership economiche possono continuare anche senza l’accordo con la bandierina politica della Via della Seta, tanto più che la Francia, che in questo momento è tanto amica della Cina, non è parte della Via della Seta.

Ma la Cina ha una qualche motivo per rivendicare Taiwan o ragiona semplicemente da potenza mondiale che prende quello che vuole?

Il problema di Taiwan si poteva risolvere negli anni Cinquanta, adesso Taiwan ha sviluppato una serie di robuste istituzioni e modi di vivere democratici a cui nessuno vuole veramente rinunciare. Quello che ha dato il colpo di grazia ai politici taiwanesi che pensavano a una forma federativa che salvasse capra e cavoli è stata la legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, perché ha mostrato che i cinesi, quando promettono la formula un Paese-due sistemi, poi non mantengono.

Con quello che è successo a Hong Kong, vedi le restrizioni della libertà e le successive proteste, hanno chiarito abbastanza bene qual è il loro approccio.

Dopo il passaggio della legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong le forze taiwanesi più anticinesi hanno cominciato a guadagnare punti nelle elezioni politiche, perché quella legge ha normalizzato Hong Kong, che in pochi anni diventerà una normalissima città cinese. I due sistemi promessi dalla Cina non ci sono. Dell’indipendenza del sistema giudiziario ci sono delle vestigia ma stanno sparendo, la democrazia è sparita perché si può candidare alle elezioni solo chi è un patriota ed è amico della Cina, la libera stampa sta sparendo anche lei, e quindi in realtà oggi è difficile vendere ai taiwanesi la soluzione pacifica di un Paese due sistemi: non ci credono più.

La guerra non sarà imminente, ma dopo quello che ha dichiarato Xi Jinping in occasione della sua rielezione a segretario del Partito comunista, prima o poi, se vuole tenere fede alle sue parole, dovrà farla.

Ma questo, da Mao se Tung in poi, lo hanno detto tutti i leader cinesi ed è un problema di costi-benefici, perché dal punto di vista economico la Cina ha sempre funzionato molto bene con una simbiosi con l’economia taiwanese. Prima degli ultimi scontri e soprattutto prima della guerra in Ucraina c’erano tutta una serie di joint ventures economiche fra società cinesi e taiwanesi e per l’economia sia di Taiwan che della Cina funzionavano benissimo: sfasciare tutto in nome di una rivendicazione nazionalistica territoriale dal punto di vista economico non conviene. Dal punto di vista politico è un’antica bandiera del Partito comunista cinese, ma i cinesi sono più pragmatici dei russi e si tratta di una bandiera che sarà sventolata dopo un’attenta analisi del rapporto costi-benefici.

Sotto questo profilo, che cosa vorrebbe dire un attacco a Taiwan?

Comportando la rottura totale delle relazioni economiche fra Cina e Stati Uniti, avrebbe un costo molto più alto degli eventuali benefici che Pechino potrebbe avere dall’incorporare Taiwan. Non parlo neppure delle dichiarazioni di Biden che ogni tanto si fa scappare “Se attaccheranno Taiwan mandiamo le truppe”. Anche se non mandano le truppe un cordone sanitario economico degli Usa intorno alla Cina, quantunque fosse rotto dai Macron di turno, rimanderebbe indietro l’economia cinese di trent’anni.

Dunque, se da una parte i cinesi si spendono con un piano di pace per l’Ucraina perché la guerra rende più difficile i rapporti con l’Europa, dall’altra perché dovrebbero impegnarsi in un conflitto che avrebbe pesanti ripercussioni economiche…

I cinesi danno rilievo alle dichiarazioni di Macron, ma allo stesso tempo sanno che nel loro commercio estero l’Europa conta 1 e gli Usa contano 25. L’Europa conta quanto uno Stato medio degli Stati Uniti. Se gli Usa, che poi sarebbero seguiti da amici stretti come la Gran Bretagna e forse anche l’Australia e il Giappone, stendessero un cordone sanitario economico intorno ai prodotti cinesi, il danno per la Cina sarebbe incalcolabile.

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