È difficile immaginare quale riforma della giustizia possa essere approvata in Italia. Ed è già paradossale che, dopo oltre quarant’anni, a discuterne con decisione sia un governo di destra (destra-centro o centrodestra) che avrebbe intenzione di dare un colpo decisivo all’impianto, come nel caso di quello penale e di procedura penale, ispirato da Alfredo Rocco e Achille Grandi, due ministri di Benito Mussolini.
Forse c’è ancora qualcuno che ricorda, in questo Paese che rivendica “una democrazia di ferro” ma che ha scarsissima memoria, il 17 giugno 1983, quando alle 4 del mattino fu arrestato in un albergo romano Enzo Tortora, un uomo innocente, trascinato in un processo con l’accusa di traffico di stupefacenti da un cosiddetto “pentito”, che poi si pentì di essersi pentito e confessò di aver detto il falso per convenienza. Ma intanto Tortora fu scaraventato sugli schermi televisivi, in manette tra due agenti di polizia, e comparve in fotografia sulla grande stampa nazionale come una notizia sensazionale.
Il ricordo della drammatica storia di Enzo Tortora sta anche in un libro di Vittorio Pezzuto, Applausi e sputi (2008), che racconta le due esistenze che ha dovuto vivere Tortora grazie alle indagini di un pubblico ministero. Il trauma che aveva subito gli procurò un cancro e l’assoluzione restò solo una soddisfazione storica, che comunque non costò nulla al pubblico ministero Diego Marmo, il pm che accusava, sbagliando, Tortora. Anzi Marmo fu promosso e fece carriera!
Dieci anni dopo, il 4 marzo 1993 (trent’anni fa), si poteva ancora vedere al tribunale di Milano, durante la stagione di “tangentopoli”, il democristiano Enzo Carra, per questioni di finanziamento al partito, entrare in un’aula con le manette ai polsi e scortato da due carabinieri.
Un’umiliazione voluta dai famosi pubblici ministeri che hanno affossato l’Italia, facendo parte di un “partito trasversale” che occorre sempre ricordare per comprendere la “levata di scudi” odierna di giornali, televisioni, new media e magistrati su intercettazioni e separazione delle carriere, appena il nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ne ha accennato e ne ha parlato pubblicamente. Forse perché è di opinione comune che Carlo Nordio, ex pubblico ministero a Venezia, si è sempre battuto per un processo accusatorio e non per un impianto inquisitorio come ancora esiste in Italia, unico tra i Paesi che dovrebbero essere occidentali e democratici.
Chi ha studiato legge sa bene che uno dei cardini di un giusto processo sta in una frase di Montesquieu e di molti altri teorici della democrazia; se in un processo non c’è la terzietà del giudice e se il rappresentante dell’accusa e il giudice fanno lo stesso mestiere, ci si trova di fronte a un abuso. Lo hanno sempre ripetuto grandi giuristi come Bissolati, Merlino, Carnelutti, fino a Giovanni Falcone, che andò sotto giudizio degli organi della magistratura per merito di alcuni suoi colleghi.
Negli anni di “tangentopoli” uscì negli Stati Uniti, in inglese, The Italian Guillotine per definire i metodi dell’operazione della magistratura italiana, ma naturalmente quel libro non venne mai tradotto dalla nostra “discreta” editoria nelle mani dei “capitani di sventura”.
Bisogna arrivare agli ultimi due anni, dopo aver accumulato una serie di nefandezze, per poter leggere i misfatti della magistratura italiana documentata da Alessandro Sallusti e Luca Palamara in due libri, “Il sistema” e “Lobby&Logge”, che hanno procurato uno scossone nell’opinione pubblica alla credibilità della magistratura, sopratutto quella politicizzata a sinistra, che probabilmente, per errori su errori, ha favorito pure l’ascesa del centrodestra al governo.
A questo punto bisogna fare un punto di carattere storico e ricordare la famosa teoria di un grande giornalista, Lino Jannuzzi, di fronte a tanto “ardore” polemico di stampa e televisione contro Nordio. La teoria recita: “La notizia precede il fatto e lo determina”.
Insomma si sta mettendo in atto uno sbarramento di fuoco, creando il “caso Nordio” per difendere, nel presente, passato e futuro, una parte della stampa e una parta della magistratura (il partito dei pm), quello della vecchia Italia che si reggeva sul tentativo, naufragato nel 1978, del compromesso storico e l’alleanza trasversale con una manciata di grandi capitalisti all’italiana, cioè familistici, legati alla rendita e alla speculazione finanziaria in tutti i campi, ma coperti naturalmente dalla “complicità” di un’informazione che avevano comprato sin dagli anni Venti sotto il regime fascista, cacciando, attraverso uno dei luogotenenti del duce come Roberto Farinacci, gli Albertini e i Frassati, oppure diventando dei “redenti”, cioè saltando dal fascismo alla monarchia e infine a una visione democratica che sarebbe stata tutelata dal Pci. Quello di Enrico Berlinguer, naturalmente, non certo da quello di Giorgio Amendola che aveva definito il capitalismo italiano “straccione” e voleva trasformare tutta la sinistra, unendola in un grande partito riformista: riformista, turatiano, socialdemocratico, laburista, fatto intollerabile per chi difendeva, ancora nel 1979 come fece Berlinguer, la “lezione di Marx e di Lenin”.
Questo “capitalismo straccione” che sapeva ormai di concludere la sua parabola, chiudendo o emigrando, dopo aver imboscato miliardi e guardando dall’alto in basso la nuova e media industria italiana, che cresceva anche a livello internazionale, voleva ugualmente avere un ruolo di potere attraverso i suoi scribi e, in diverse occasioni, mediante un rapporto con la magistratura. Tutto nel nome del cronico immobilismo italico del “tutto cambi perché nulla cambi” e quindi contrario, fortemente avverso a una nuova politica gestita dai laici e non più dal “bipartitismo imperfetto” nato a Yalta nel dopoguerra.
La necessità di riforme istituzionali, di modernizzare il Paese, di garantirne ancora di più i pilastri della democrazia terrorizzava letteralmente il “partito trasversale” dell’immobilismo. In questo modo ci si dimenticò dell’“oro” che veniva da Mosca, delle riforme, di un nuovo ruolo geopolitico soprattutto nel Mediterraneo e con un colpo di spugna, gestito dalla magistratura, si cancellarono i partiti laici, lasciando sul campo solo gli eredi del fascismo e del comunismo, rivestiti con alcune toppe sulle nuove giacche indossate.
L’esito dell’operazione immobilista del partito trasversale è stato disastroso. Basta guardare i numeri e la crisi, la disillusione generale che attraversa il Paese, nonostante alcune rassicurazioni che fanno ridere tristemente.
Il desiderio di un cambiamento profondo esiste, ma non può essere, a nostro parere, gestito dal centrodestra. Dovrebbe essere l’intera società italiana ad avere un sussulto per riorganizzarsi guardando all’evoluzione epocale che è in corso, dando vita a nuove associazioni e a nuove organizzazioni territoriali, a una nuova politica basata sui partiti veramente laici e non ideologici. Se non dovesse accadere questo “miracolo” dell’attuale centrodestra, resterebbe il solo Nordio a cercare di abbattere l’ultimo bastione del conservatorismo e l’attuale maggioranza cadrebbe nel dimenticatoio di un tormentato passato, così come sta accadendo al Pd e a questa sinistra da reinventare. È un processo lungo, ma anche possibile. E forse, qualche volta, il teorema di Jannuzzi potrebbe rivelarsi errato.
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