La recente mossa di Unicredit verso Banco Bpm, la risposta del Credit Agricole diventato il primo azionista della ex popolare milanese, oggi quarto gruppo nazionale, ha riaperto non tanto il risiko bancario, quanto il confronto sui termini del sistema. Interesse nazionale, proprietà straniera, ruolo dello Stato.
Lasciando da parte le tradizionali finestre polemiche, sulle modalità di dismissione di Monte Paschi e altro, abbiamo visto definirsi due posizioni. Una concentrata sulla necessità, una volta per tutte, che l’Italia faccia come gli altri Paesi quando si tratta di difendere identità e proprietà delle cose che contano. E le banche caspita se lo sono. Una concentrata, una volta per tutte, sul voler dare agio al mercato di esprimersi. Sia pure dentro obiettivi e valori che in qualche modo si trova il modo di indicargli.
Nei tardi anni ’90 tutti ricorderanno il proliferare, a tratti inverosimile, di filiali bancarie dappertutto. Grandi città, piccoli centri, paeselli. Ovunque. Si diceva che fosse importante “occupare” materialmente il territorio, viste le strambe idee liberiste dell’Europa, per evitare che arrivassero gli stranieri a prendersi l’enorme patrimonio liquido degli italiani e impiegarlo a casa loro o altrove. Si diceva che fosse pure un presidio di garanzia della legalità, più banche meno spazio per procacciatori di credito criminale. Si diceva che potesse essere anche una forma educativa per un Paese che tanto risparmia quanto difetta di conoscenze finanziarie.
Le categorie di questo pensiero animano gli attuali confronti su Unicredit, Credit Agricole, Montepaschi e Banco Bpm. E stanno alla base di chi, per esempio, lancia l’allarme sulla desertificazione bancaria. E in effetti i numeri dicono che a ridosso della crisi del 2008 eravamo arrivati a oltre 34.000 filiali bancarie, mentre oggi sono circa 20.000. Avevamo circa 800 banche iscritte all’Abi che oggi sono 430. E c’erano circa 335.000 bancari che oggi sono sui 260.000.
Quel modello, e il pensiero che gli stava dietro, ha svolto una drammatica funzione anti-ciclica in quegli anni, ma, al contrario esatto delle sue premesse, ha portato anche a una zavorra di credito problematico e sofferenze che hanno rischiato di trascinare nel baratro il Paese, ai tempi della famosa crisi dello spread. Ha permesso uno dei più grandi crac finanziari della storia europea contemporanea, quello delle popolari venete. Ha, forse, favorito uno dei fenomeni di credito illegale e usuraio fra i più velenosi dei Paesi simili.
Oggi le banche hanno fatto un lavoro straordinario. Un po’ la tabella di marcia della Banca centrale europea, un po’ la straordinaria cogestione con i corpi intermedi (l’83% circa dei bancari è sindacalizzato) che ha accompagnato quei processi, il Covid, si può dire miracolosamente, senza morti né feriti. Un po’ forse, la paura di aver capito drammaticamente di rivestire un ruolo sussidiario fondamentale per la tenuta del sistema-Paese, così fragile nelle direttrici essenziali di demografia, debito e sostenibilità del welfare. Sarà quel che sarà, ma oggi le banche erogano molto meglio, concepiscono la loro robustezza sapendo che vale ben più di una stampella per l’intero sistema Paese e nei casi più all’avanguardia sperimentano persino modelli nei quali con la richiesta di credito l’impresa è sostenuta a intraprendere un cammino culturale e industriale virtuoso o addirittura salvavita (passaggio generazionale, sostenibilità energetica, ecc.).
Non facciamo, oggi, un buon lavoro di analisi e valutazione delle ipotesi di intervento nel capitale di un gruppo sistemico come Banco Bpm o se assistessimo, domani, a un grande o chi sa, grandissimo matrimonio bancario europeo, finché ci costringiamo entro gli schemi Stato/mercato, straniero/italiano… Il punto sono i modelli di business, i piani industriali esistenti e la capacità di accendere il faro sui bisogni effettivi, mentre quei piani industriali si delineano.
Sembra, per esempio, che la Legge di bilancio introduca novità rilevanti in tema di garanzia pubblica per i mutui prima casa anche a favore di famiglie monogenitoriali, il che è una cosa che conta e che incide. L’Ivass, l’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, nei suoi saluti di fine anno ci ricorda che il 2025 si apre con una grandissima novità: l’obbligo di polizza catastrofale a carico delle imprese che pone (finalmente in modo esplicito, viene da dire) il grande tema del rapporto fra stabilità finanziaria e rischio climatico/idrogeologico e che aprirà una stagione delicata e complessa per il settore assicurativo e per le circa 4 milioni di piccole e medie imprese alquanto lontane da una matura attitudine a gestire questi rischi (anzi a gestire i rischi, in generale!).
E ancora tutti sanno che l’efficienza produttiva del Paese è allo stallo da decenni, ben prima del Covid, che i salari italiani stanno in coda a tutti e che, anche se nessuno vuole aprire formalmente il caso, che la spesa sanitaria privata sfiora i 40 miliardi ogni anno, il che impone che si cominci a parlare delle intenzioni sul futuro Sistema sanitario nazionale. Si potrebbe chiudere ricordando che fra non moltissimo, queste sbandierate vitali rate di Pnrr saranno, in larga misera, debito da restituire!
In mezzo a tutto questo, sta la banca. Perciò quelle che fanno scuola hanno già da tempo definito se stesse bancassicurazione e si stanno muovendo dentro tutti questi nodi, non solo nel configurare sé stesse, ma anche nell’elaborare il contenuto e gli obiettivi dei loro prodotti. Bisogna imparare a guardare a queste cose. Se a Siena si parlerà francese, tedesco o milanese è questione secondaria e forse anche un po’ noiosa. Bisogna capire chi ha confidenza con salari, debito, pensioni, sanità, rischi e chi ha voglia di dialogare con questi problemi. Guardando lontano a partire da essi.
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