Tolleranza e dialogo in Oman ed Emirati Arabi, comunque libertà di culto nello Yemen, dove la presenza dei cristiani sopravvive nel nord grazie alle suore di Madre Teresa di Calcutta. In questa parte di Medio Oriente, racconta Paolo Martinelli, vescovo vicario apostolico per l’Arabia Meridionale, i cattolici sono un milione, tutti migranti, metà dei quali filippini, e hanno la possibilità di professare la loro fede. Anzi, le autorità emiratine sostengono pure il dialogo interreligioso, in una terra da sempre abituata ad accogliere stranieri. Parliamo di una comunità cristiana fatta di persone di nazionalità diverse, anche indiani, giordani, palestinesi, gente dello Sri Lanka, che soprattutto a Natale vivono con forza la loro fede, partecipando assiduamente alle celebrazioni religiose e vivendo il senso della festa e della speranza che accompagna questa ricorrenza. Una comunità che prega per la pace in Medio Oriente e testimonia la solidarietà fra persone di provenienza diversa.
Gran parte del Medio Oriente è sconvolto dalla guerra. Come influisce sulla vita in Yemen, Oman ed Emirati Arabi?
Dal punto di vista della qualità della vita civile, qui siamo sostanzialmente tranquilli. L’unico Paese che rimane in difficoltà è ancora lo Yemen, perché il nord è coinvolto nel conflitto; quindi la situazione lì rimane certamente molto fragile. Nel sud, comunque, non abbiamo una presenza istituzionale in questo momento, perché ci sono stati questi dieci anni di guerra civile e le chiese che avevamo sono state tutte fortemente danneggiate: i preti se n’erano andati mano a mano che cresceva il conflitto. Al nord, invece, ci sono le due comunità di Madre Teresa e un sacerdote: fanno un grande lavoro di carità e radunano i pochi fedeli che vengono alla messa nella loro cappella. La vita continua serenamente soprattutto grazie alla fede che hanno le suore, che portano avanti la loro missione con grande serenità, dando una grande testimonianza di fede.
Come riescono a farsi accettare in un contesto così difficile?
C’è una lunga tradizione che le sorregge: le suore lì sono state chiamate dal governo, sono arrivate perché è stata chiesta la loro presenza e ora sono molto apprezzate nel tipo di servizio che svolgono. Sono state attaccate due volte: nel 1998, quando vennero uccise tre suore, e all’inizio della guerra civile, nel marzo del 2016. Nonostante questo, hanno deciso di rimanere. Sono una presenza positiva per tutti, con grande discrezione e con una dedizione disarmante. Si occupano di assistere i più poveri, gli anziani, gli ammalati: fanno proprio questo tipo di lavoro. Hanno due case in cui ospitano gratuitamente le persone. Il loro Natale è molto semplice, sobrio ed essenziale, anche se non meno sentito. Ci sono le suore, il sacerdote che opera con loro e i cristiani che frequentano le strutture.
Com’è il rapporto con il potere in questi Paesi? C’è tolleranza? E fino a che punto?
Nell’Oman e negli Emirati Arabi, le cose vanno molto bene: soprattutto gli Emirati Arabi Uniti sono un Paese di lunga tradizione di ospitalità. La maggior parte degli abitanti qui è migrante e c’è sempre stata una politica dell’accoglienza. Non solo: è radicata l’idea del dialogo interreligioso e interculturale, che è molto sentito dal governo. Penso alla Abrahamic Family House, con i suoi tre luoghi di culto (chiesa cattolica, una moschea e una sinagoga) e spazi comuni a diverse confessioni religiose, e a quanto è successo dopo la visita del Papa. L’Oman forse sottolinea meno questo aspetto, però sostiene di fatto la libertà di culto.
Dunque non ci sono fenomeni riconducibili al fondamentalismo o comunque a un modo più radicale di vivere la religione islamica?
No. L’unica situazione problematica è lo Yemen, ma dal punto di vista dell’Oman e degli Emirati noi non conosciamo episodi di attacchi, assolutamente no. Il clima è veramente sereno: cioè noi viviamo tranquillamente il nostro Natale, facciamo un sacco di feste. Ad Abu Dhabi abbiamo riempito il compound della chiesa con tutte le famiglie, offrendo questa possibilità a tutti i gruppi linguistici: ognuno offriva cibo della propria nazione, quindi abbiamo cantato, giocato, coinvolgendo tutta la comunità e l’abbiamo potuto fare assolutamente in modo tranquillo e sereno. Tra l’altro, dobbiamo sempre chiedere i permessi per tutte queste manifestazioni e ci hanno sempre concesso di farle. A Natale, poi, qui ci sono le messe, dalla mattina alle 6 fino alla sera alle 9, una dopo l’altra, perché i fedeli partecipano molto. Un segnale di fratellanza e di speranza nell’autentico spirito del Natale. Abbiamo istituito un servizio soprattutto per i migranti che sono qui senza famiglia: restano tutto il giorno. Anche queste sono possibilità che ci vengono date dalle autorità civili.
La comunità cristiana è una comunità di migranti di quali nazionalità?
La maggior parte dei nostri fedeli (in tutto un milione di persone fra i tre Paesi) sono filippini: sono il 50%. Poi ci sono i nostri fedeli indiani, che sono anche loro molto numerosi. I migranti indiani sono tantissimi, anche se, ovviamente, i cattolici sono molto meno, perché la maggior parte sono hindu oppure sikh. Nella comunità cristiana contiamo circa un centinaio di nazionalità, compresi srilankesi, pakistani, libanesi, giordani, persone anche dalla Palestina e dall’Africa. E anche dal Sud America, dall’America e dall’Europa, in numeri ridotti. Tante tradizioni diverse che condividiamo: è molto bella, per esempio, la tradizione che hanno i filippini di preparazione al Natale, il Simbang Gabi: nove sere di fila, un po’ come le nostre novene, che vivono con una fedeltà impressionante.
È una celebrazione?
Una messa. Una celebrazione però molto animata, accompagnata con canti, con momenti di preparazione del Natale. Addirittura a Dubai arrivano a 20mila per nove sere di fila. Riempiono non solo le chiese, il compound, ma anche il campo da calcio legato alla parrocchia. Stupisce tantissimo vedere questo attaccamento alla propria tradizione cristiana. Non ci sono cattolici emiratini però, questo assolutamente no. C’è qualche eccezione, ma rarissima. Sono stranieri ai quali è stata concessa la nazionalità per meriti particolari, per servizi resi alla nazione.
Quindi la conversione non è prevista, insomma?
No, come in tutti i Paesi islamici non è proprio prevista come tale. L’identità è certamente un’identità islamica, ma molto aperta e dialogante.
Come arriva lì l’eco delle guerre in Medio Oriente? Come vengono percepite o vissute dalla comunità locale?
I nostri vicariati, sia quello del sud che quello del nord, fanno parte della conferenza episcopale del Medio Oriente, presieduta dal cardinale Pizzaballa. Siamo in rapporto stabile con loro e ci preoccupiamo di pregare con la nostra gente per la pace. Tra l’altro, i nostri cattolici di lingua araba spesso hanno parenti che sono coinvolti nei conflitti. Abbiamo molti libanesi, giordani, anche palestinesi: sapere che la propria famiglia si trovi in un conflitto è qualcosa che dà una grande pena nel cuore. Quindi, come Chiesa, cerchiamo di esprimere vicinanza e solidarietà. Dal punto di vista civile, diciamo, qui la situazione, grazie a Dio, rimane molto tranquilla: c’è un ottimo livello di sorveglianza, la sicurezza qui finora è sempre stata garantita. L’Oman ha fatto una scelta, almeno nei primi mesi, di sostegno della causa palestinese, mentre gli Emirati hanno soprattutto mostrato grande solidarietà con chi è stato colpito, intervenendo con aiuti umanitari o accogliendo persone che devono essere curate dal punto di vista sanitario.
Tornando allo Yemen, c’è qualche rapporto con gli Houthi?
No, anche perché le suore di Madre Teresa non fanno altre attività rispetto a quelle di assistenza alle persone. Non è un lavoro che ha connotati politici. È garantita la libertà di culto e si celebra la messa. Nel sud, invece, stiamo cercando adesso di riprendere l’attività: la Santa Sede ha nominato recentemente un nunzio apostolico, che tra l’altro è il nostro, quello che risiede qui negli Emirati. Vorremmo andare a vedere le nostre chiese per capire se sarà possibile farle ripartire.
(Paolo Rossetti)
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