TORNA A PARLARE PIERANGELO DACCÒ: “I CONTI DI FORMIGONI NON SONO MAI ESISTITI”

«I conti segreti di Roberto Formigoni? Non sono mai esistiti»: lo dice a “Il Giornale” Pierangelo Daccò, oggi 67 anni, dipinto dal processo sul caso Maugeri come “l’uomo chiave” del “sistema Formigoni” della sanità in Lombardia. Le vicende Maugeri e San Raffaele hanno portato Daccò ad essere condannato, complessivamente su 3 processi, a 22 anni di carcere: «uno sproposito, qualcosa che non si infligge nemmeno a un assassino, ma evidentemente qualcuno riteneva che io avessi le chiavi dei fantomatici conti segreti di Formigoni che nessuno ha mai trovato, perché non esistevano», racconta lo stesso “faccendiere” a Stefano Zurlo, per la prima volta dopo un lunghissimo silenzio “imposto” dalle condanne (ad oggi è ancora in affidamento in prova ai servizi sociali).



«La verità processuale cozza, e non poco, con quella storica», argomenta ancora Daccò, «diciamo che in concreto dal novembre 2011 ho trascorso 5 anni in carcere senza mai mettere piede fuori e un anno ai domiciliari per poi passare, dopo un periodo di sospensione della pena, ai servizi sociali ancora in corso». Dopo il sequestro totale dei conti e dei beni, Pierangelo Daccò vive facendo il segretario amministrativo in un centro medico convenzionato nel cuore di Bordighera, Liguria: «la domenica torno a casa, da mia moglie Anita a Sant’Angelo Lodigiano. Lei non mi ha mai abbandonato, molti altri, invece, che mi erano vicini, sono spariti. Mai più visti».



DACCÒ, FORMIGONI E QUELLA DENUNCIA MISTERIOSA ARCHIVIATA…

Ciò però che fa soffrire Daccò non è tanto l’abbandono delle tante persone “amiche” e conoscenti negli anni prima dei processi: «mi fa soffrire che i magistrati abbiano criminalizzato la mia vita, tutta la mia vita e tutta la mia attività di imprenditore». Legato sempre alla conoscenza di Roberto Formigoni (incontrato negli anni Novanta con l’inizio delle collaborazioni attive a livello sanitario e politico), l’ex imprenditore condannato nei processi di Milano lamenta l’esser stato fatto passare da delinquente cinico e avido: «non mi hanno ascoltato», rivela poi Daccò in merito ad un episodio avvenuto in casa sua circa due anni fa.



Due personaggi arrivano e uno di loro si fa avanti: «Lo fanno accomodare in una saletta sotto l’occhio delle telecamere che riprendono tutta la scena. Io entro e lui a bruciapelo, senza tanti preamboli, mi chiede 21 milioni di euro che, secondo lui, gli doveva dare Mario Cal, il braccio destro di don Verzé, morto suicida sotto la cupola del San Raffaele nei giorni bui della ipotesi della bancarotta per cui veniva emessa ordinanza di custodia contro di me. Questo signore evidentemente pensava che io avessi fatto sparire il malloppo insieme a Cal». A quel punto Daccò racconta di aver risposto al personaggio misterioso di venire con lui dai carabinieri per denunciare i fatti in quanto Cal oggi è morto e non può dunque difendersi: «ho risposto a questo signore di venire con me dai carabinieri per denunciare i fatti e mi sono avviato verso l’uscita, ma a quel punto lui è scappato. Io però ho portato le immagini delle telecamere e le testimonianze dei presenti alla procura di Lodi». Ma dopo quel fatto nulla si muove e anzi, il dossier viene archiviato assieme alla denuncia poi fatta da Pierangelo Daccò: «Quei due signori, lui e l’altro fuggito a sua volta con la macchina, restano un enigma. Come i fantomatici conti di Formigoni di cui mi chiedevano conto i magistrati. Non li hanno mai trovati, forse per la semplice ragione che non esistevano», conclude al “Giornale”.