Dacia Maraini ha un passato che non tutti conoscono e che ha contribuito a forgiare le sua visione del mondo. La poetessa, a partire dal 1942, per due anni fu internata insieme ai genitori e alle sorelle in un campo di prigionia in Giappone. Dacia aveva appena sette anni ma non dimentica, come una cicatrice ancora oggi dolorosa, quell’esperienza, quegli anni persi per sempre. Da quella storia nasce la sua convinzione che il carcere non dovrebbe essere “il luogo della vendetta sociale, perché il concetto di vendetta è arcaico e fuori tempo”. Di quei giorni nel carcere giapponese ricorda “la fame, quella fame che porta a malattie come lo scorbuto e il beriberi, che porta parassiti, perdita di capelli, dolori per tutto il corpo, emorragie, e lo sguardo vitro. Avevamo cibo appena sufficiente per sopravvivere, stavamo malissimo”.



La sua famiglia si trovò in carcere da innocente: “Eravamo prigionieri politici” racconta a La Stampa. “La nostra colpa, per i giapponesi e per gli italiani fascisti era di aver tradito la patria, ovvero la Repubblica di Salò. Ma i miei genitori non erano politicizzati. Erano solo e decisamente contrari al razzismo. Per questo ci hanno chiusi in un campo di concentramento per due anni”. Proprio da qui nascono le convinzioni della scrittrice, che vede la situazione attuale delle carceri italiane come frutto di una “cattiva politica, di negligenza vergognosa, di una mancanza di attenzioni e investimenti sulle carceri”.



Maraini: “Spazi stretti e condizioni soffocanti nelle carceri”

La soluzione al sovraffollamento delle carceri, che porta con sé condizioni di vita inaccettabili per le persone private della libertà personale e troppo spesso anche a “conclusioni” drastiche come il suicidio, per Dacia Maraini non sono le maniere forti. “Le prigioni italiane hanno bisogno di più investimenti, servono più attenzione, più comprensione e umanità. La prigione dovrebbe essere un luogo di apprendimento e ravvedimento, quando possibile. Per ora è tropo spesso un luogo abbandonato e infelice” spiega a La Stampa. “I prigionieri”, infatti, “secondo la Costituzione devono potere lavorare, devono potere studiare, fare sport, essere ascoltati e avere accesso a forme di insegnamento e di educazione civica. Invece si tengono chiusi in spazi stretti e in condizioni soffocanti” sottolinea ancora la poetessa.



Nelle carceri il 9.2% dei detenuti soffre di disturbi psichici molto gravi ma in pochi beneficiano di assistenza psichiatrica. “C’è una responsabilità culturale di tutto il Paese che ha perso ogni empatia verso chi sta male” secondo Maraini. “I soli che veramente ci mettono l’anima sono i volontari, di tutte le età e luoghi di origine” prosegue. La prigione, a detta della poetessa, “dovrebbe essere un posto dove si impara a capire gli errori fatti, non il luogo della vendetta sociale. Il concetto di vendetta è arcaico e fuori tempo. È il Paese intero che dovrebbe abbandonare le vecchie prevenzioni e prendere un patteggiamento umano. Se il Paese cambia, cambiano anche le istituzioni. Non si può sempre incolpare i governi. Chi ha permesso loro di governare? Di quale consenso si avvalgono? Che popolo rappresentano? Io, per quanto ho potuto, ho lavorato per le carceri”.