Caro direttore,
Paolo Mieli si indigna che il consenso italiano alla guerra occidentale in Ucraina contro la Russia mostri segni di sgretolamento. Ma non può non sottolineare come la tendenza sia visibile anzitutto nella sua sinistra di riferimento storico: quella che si è abbeverata anche ai suoi editoriali. Quel Pd in cui non è più leader un cattolico come Romano Prodi (cioè un “pacifista”, nello spregiativo gergo corrente) ma Elly Schlein, figlia di un politologo liberal americano, israelita come Mieli (e come Volodymyr Zelensky). Nondimeno una leader dubitante su tutti i fronti, per la sorpresa scandalizzata dell’ex direttore del Corriere.
A favore convinto di Kiev – nell’accostamento non banale del column – rimangono il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la premier Giorgia Meloni. Entrambi assenti alla recente prima della Scala: dove il presidente del Senato Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, ha potuto accedere al palco d’onore solo cedendo lo scranno centrale alla senatrice a vita Liliana Segre, testimone dell’Olocausto, nominata da Mattarella e in più occasioni vicina all’odierna opposizione di centrosinistra. Ciò, comunque, non ha evitato a La Russa l’aperta contestazione (“Viva l’Italia antifascista”) di un loggionista, difeso nell’occasione da una sinistra indignata in nome della libertà costituzionale di espressione.
Negli ultimi giorni, sui media internazionali, ha sfondato un’altra indignazione esplosa all’incrocio fra crisi geopolitica, identità democratica dell’Occidente e questione ebraica: quella che ha costretto alle dimissioni Liz Magill, presidente della Penn University, una delle più antiche, ricche e prestigiose negli Usa. Durante un’audizione al Congresso sul ritorno dell’antisemitismo nei campus dopo lo showdown a Gaza, Magill (di solide simpatie dem così come l’ateneo della Ivy League) è stata messa sotto pressione da deputati di entrambi gli schieramenti perché ha esitato a punire studenti che hanno dimostrato contro Israele al grido filo-palestinese e anti-sionista di “Dal fiume al mare” (equiparato dalla comunità ebraica internazionale a un’incitazione al genocidio, oltre ogni linea rossa di antisemitismo).
La presidente della Penn ha risposto che ogni azione disciplinare contro la libertà d’espressione degli studenti “dipende dal contesto”. Poche ore dopo i trustees dell’ateneo (spalleggiati anche da parlamentari e opinionisti dem) l’hanno licenziata: principalmente a causa di una raffica di tagli alle donazioni annunciati a tamburo battente da parte di numerosi grandi finanziatori. Questi ultimi – non solo in Pennsylvania – sono per una parte non trascurabile israeliti, mentre altri solidarizzano al loro fianco (sebbene spesso timorosi che un silenzio malinteso scateni contro di loro le stesse onde reattive fatali a Magill).
Tutti i donors multimilionari della grandi università private d’Oltre Atlantico, in ogni caso, hanno sostenuto per decenni con decisione una traiettoria culturale politically correct: certamente rispettosa e inclusiva al massimo di tutte le minoranze (quella israelita come quella islamica; gli afro come altre comunità etniche) ma anche innestata nella tradizione americana del “free speech”. E il granitico Primo Emendamento della Costituzione del 1776 difende in via assoluta la libertà di pensiero e parola: ed è lo stesso che pone un limite invalicabile alla libertà religiosa, che non può mai pretendere di imporsi allo Stato e ai principi fondamentali della convivenza civile.
È a questo “contesto” di costituzione materiale che si è appellata Magill, stimata giurista costituzionale. È finita anzitutto nel mirino dei repubblicani, che stanno avendo buon gioco anche nel rammentare come sia stato Donald Trump a varare quattro anni fa un robusto decreto sulla lotta all’antisemitismo. Attento ai rigurgiti nelle università quanto alle iniziative di boicottaggio verso prodotti o investimenti israeliani.
Il provvedimento fu di fatto un prodromo agli Accordi di Abramo: il piano unilaterale – alla vigilia del Covid – che Trump concesse al premier Netanyahu, cancellando la logica “due popoli due Stati” nei Territori, ma raccogliendo l’assenso pragmatico di un Paese come l’Arabia Saudita. Quel piano non è mai stato sconfessato dal presidente dem Joe Biden (che anzi l’ha tacitamente incoraggiato) anche se e stato nei fatti la premessa di una nuova guerra di Gaza (in parte ricalcabile sulla seconda guerra ucraina, che ha covato per otto anni nelle braci della prima e degli Accordi di Minsk, stilati con Barack Obama e Biden a Washington e mai attuati).
Resta il fatto che una catena infinita di corti circuiti – nelle “culture war” non meno che nei teatri bellici – sta mettendo sotto pressione soprattutto la fragile presidenza dem, mentre l’anno delle presidenziali si sta aprendo nella prospettiva di un nuovo duello fra Trump e Biden. Come la presidente della Penn (che alla fine ha dovuto gettare la spugna), anche il presidente in carica si ritrova attaccato su tutti i fronti. A sinistra gli studenti (i “giovani”) e spesso i loro professori (spesso opinion makers sui media) rivendicano il diritto di criticare Israele, governato da una destra nazionalista e religiosa (posizione condivisa dalla sinistra dem). Lo fanno, nel metodo, in nome della civiltà americana: quella occidentale per definizione.
Nel merito, gli studenti pro-Hamas della Penn (o di Harvard, kennediana e obamiana) si ritrovano difesi dai repubblicani, benché siano stati e forse restino una porzione di società americana in prima fila nel considerare Trump – paladino filo-israeliano – come la minaccia ultima alla democrazia globale. L’obiettivo di contrastare il ritorno dell’ex presidente non può non essere condiviso dai grandi finanziatori delle università liberal, pronti però a boicottare all’istante a suon di dollari le “loro” università se queste danno spazio alla contestazione al “neo-fascista” Netanyahu (l’espressione è stata usata il 3 ottobre scorso da Haaretz, quotidiano guida della sinistra israeliana). Eppure Netanyahu è notoriamente un alleato supporter di Trump: contestare quest’ultimo ed eccepire marce e slogan contro il primo appare in sé contraddittorio.
Neppure i repubblicani, tuttavia, sono immuni da equivoci e corti circuiti sui diversi fronti interni ed esterni; laddove, anzitutto, il trumpismo carico di guai giudiziari e conflitti d’interesse disparati spacca il partito ovunque. Non certo ultimo sul versante ucraino. A fianco di Israele nella “guerra definitiva” ad Hamas ed Hezbollah, il Gop opta per un classico isolazionismo quando frena Biden al Congresso sul rinnovo degli aiuti a Kiev. Anche se i tatticismi dominano.
Biden – che costringe Zelensky a un’umiliante trasferta a Washington per ottenere almeno un supplemento invernale di sussidi – è il primo che sta accelerando verso il cessate il fuoco. Trump – che dal febbraio del 2022 attacca Zelensky per non aver risolto diplomaticamente la crisi con Putin – è il primo a tenere alta la temperatura a Kiev e dintorni: vero epicentro dei guai giudiziari del figlio di Biden, Hunter, e di quelli politici del padre. Che era vicepresidente delegato speciale all’Ucraina, quando in Piazza Maidan (luogo mediatico “liberal” per eccellenza, come le “primavere arabe”) è maturato lo slittamento “arancione” filo-Usa e filo-Nato, radice neppure troppo lontana della crisi geopolitica corrente.
Il gioco dei corti circuiti – negli Usa come in Italia – sembra poter essere replicato all’infinito, nello spazio e nel tempo. Il generale-presidente repubblicano Dwight Eisenhower lasciò la Casa Bianca a John Kennedy con l’avvertimento di contenere il nuovo leviatano “militar-industriale” cresciuto negli Usa con lo scoppio della Guerra fredda. JFK – il più “santo” fra i presidenti “dem” – fu abile nel riverniciare con la “conquista dello spazio” anni di spesa militare boom: anzitutto per la guerra in Vietnam (non così dissimile da quella in Ucraina). Ma questa non risparmiò il successore Lyndon Johnson, che non poté ricandidarsi nel 1968 e finì per dare via libera a Richard Nixon. Gli studenti radicali marciavano contro il neo-imperialismo americano di Johnson, non contro la fama già fosca di “Tricky Dick” (che dal canto suo successivamente chiuse la guerra in Vietnam, volò a Pechino e avviò la distensione con la Russia brezneviana). Nel caos delle strade – fra Los Angeles e Chicago, cinque anni dopo Dallas – finirono intanto assassinati Martin Luther King e Robert Kennedy.
Biden, tre anni fa, ha vinto le elezioni riproponendo l’eterna Great Society dem contro il “Make America Great Again” di Trump. Nei fatti, in luogo degli aumenti del salario minimo e della cancellazione dei debiti universitari, sta finanziando il reshoring dell’industria americana in nome di una “nuova indipendenza energetica” e di un rilancio del primato tecnologico molto military oriented. E i corti circuiti sembrano lontani dall’avviarsi a soluzione. Più facile che siano destinati ad aumentare. Fra razzi e slogan; fra editoriali ed elezioni.
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