Fra meno di dieci giorni sapremo se Joe Biden sarà riuscito o meno a portare fino in fondo la sua sfida presidenziale a Donald Trump. Se si votasse oggi – dicono i sondaggi – toccherebbe a lui guidare gli Stati Uniti per i prossimi quattro anni. Con impatti non facilmente predicibili – anzitutto sui mercati finanziari – soprattutto in piena seconda ondata Covid.
Fra le poche certezze vi sarebbe il compiacimento del cancelliere tedesco Angela Merkel: cui Barack Obama – nel dicembre 2016 – lasciò in una celebre cena a Berlino una sorta di mandato politico-morale di “resistere” al trumpismo arrembante. Se in effetti vi è stato un leader globale in permanente conflittualità geopolitica e personale con The Donald, questa è stata Die Angela: incarnazione di quell’europeismo multilateralista che la Casa Bianca ha avversato perfino più della Cina. Se ora Biden riannodasse a Washington il filo dell’obamismo dem (cui Hillary Clinton non sarebbe stata così fedele), la “cancelliera d’Europa” ne sarebbe una prima e sicura beneficiaria. Non senza possibili effetti nel periodo breve.
Il primo sarebbe un surplus di forza nella gestione finale del semestre tedesco di presidenza dell’Ue. Forse anche in attesa di “buone notizie” da oltre Atlantico la cancelliera non ha mostrato fretta – all’ultimo Consiglio Ue – di voler partorire il Recovery Fund: ancora osteggiato dai paesi “frugali” e sempre connesso con la questione dello “stato di diritto” in Paesi come la Polonia o l’Ungheria. Vi sono pochi dubbi che una Merkel in sintonia con “Joe, l’amico ritrovato” vedrebbe rafforzata la sua autorevolezza a Bruxelles nelle settimane cruciali di fine-semestre. Ma un’ennesima prova di leadership in Europa – in una fase di estrema difficoltà politico-economica – potrebbe riservare sviluppi ancor più importanti.
Nel settembre 2021 sono infatti in calendario in Germania le elezioni politiche. La cancelliera in carica per la quarta volta (per la terza alla guida di una coalizione fra Cdu-Csu e Spd) ha annunciato da tempo l’intenzione di non ricandidarsi. Corollario di questo passo è stata la scelta di chiamare una figura nuova al vertice Cdu. Ma l’erede formalmente designata – Annegret Kramp-Karrenbauer – non ha retto le prove d’esordio e già a metà 2019 ha gettato la spugna, accettando di sostituire Ursula von der Leyen al ministero della Difesa. Nel ruolo di “delfina di Merkel, “AKK” non è stata ancora sostituita: ed è su questo sfondo che hanno preso silenziosamente a salire le quotazioni di uno scenario “Merkel V”: forse con la cancelliera uscente disposta ad accettare un mandato a termine di “unità nazionale”. Nel quale il raggio tedesco e quello europeo finirebbero inevitabilmente per sovrapporsi: soprattutto nell’exit sempre più incerta e complessa dalla stagione Covid.
Quali impatti possibili avrebbe sull’Italia un riequilibrio “atlantico” fra gli Usa di Biden e l’Ue di Merkel? Non è affatto certo che lo scenario sarebbe di per sé sfavorevole alla maggioranza giallorossa, anzi. La nascita del governo “Orsola” si è direttamente innestata, a metà 2019, sul faticoso aggiustamento difensivo dell’establishment Ue dopo un euro-voto favorevole alle forze sovraniste come la Lega. E il premier Giuseppe Conte si è guadagnato la riconferma con una partecipazione attiva e decisiva al “ribaltone” maturato più nei palazzi di Bruxelles e Strasburgo e nei circoli Ppe e Pse che nella politica italiana. Per Conte e per il governo Pd-M5S hanno continuato a garantire fuori Italia (in Europa come in Usa) figure del calibro di Romano Prodi e – in ultima e tacita istanza – la Presidenza della Repubblica: destinato, si continua a dire insistentemente, a una riconferma “di stabilità italiana” nel gennaio 2022, poco prima che Emmanuel Macron affronti di nuovo le urne in Francia.
La seconda ondata Covid, tuttavia, sembra destinata a sconvolgere nuovamente ogni scenario. I contraccolpi socio-economici della pandemia della prima ondata non sono ancora stati affrontati che già si annunciano quelli della seconda, con effetto combinato. E’ in questo quadro che “un Governo nato con l’unico obiettivo di impedire che se ne formi un altro” (Sabino Cassese) potrebbe non nascondere più la sua intrinseca assenza di competenza e credibilità. Non è quindi è sorprendente che osservatori attenti come Stefano Folli e Guido Gentili siano tornati a evocare la prospettiva di un esecutivo di unità nazionale: per il quale il candidato-premier pressoché unico resta l’ex presidente della Bce, Mario Draghi.
Nelle conversazioni informali di questi giorni, a proposito del banchiere centrale, non manca un ballon d’essai: nei primi giorni di novembre scadrà l’anno di “decantazione” che una figura come quella di Draghi ha ritenuto doverosa dopo otto anni di fuoco a Francoforte. Che anche il presidente Sergio Matarella abbia voluto attendere prima di conferire a Draghi un laticlavio di senatore a vita unanimemente ritenuto doveroso?
Nove anni fa, durante l’autunno caldissimo del 2011, l’allora presidente Giorgio Napolitano ruppe gli indugi preconizzando Mario Monti alla guida di un Governo istituzionale attraverso la designazione a vita a Palazzo Madama. E pochi sembrano aver dubbi che la situazione economica odierna del Paese (con un crollo a due cifre del Pil e il rapporto debito/Pil al 160%) sia più preoccupante quella creata dall’attacco speculativo allo spread. Allora al governo Berlusconi-4 (legittimato da una netta vittoria al voto 2008) non fu data praticamente chance alcuna. La lettera-diktat sull’austerity firmata dal presidente della Bce uscente Jean Claude Trichet e da quello entrante, lo stesso Draghi, decretarono la fine dell’esecutivo già un paio di mesi che Berlusconi cedesse il campo a Monti: mentre i media strillavano di “far presto”.
Il confronto con la situazione corrente è oggettivamente impietoso per il Governo Conte: che è sembrato mancare tutti gli appuntamenti e sprecare tutte le chance. Nonostante l’Europa, stavolta, abbia giocato a favore e non contro. Nonostante l’endorsement della Casa Bianca – e di altri leader internazionali – a “Giuseppi” Conte.