Osservati 8 minuti e 46 secondi di silenzio a Minneapolis per commemorare George Floyd, il 46enne afroamericano soffocato da un poliziotto. Dopo la sua morte, è cresciuta la protesta: in nove giorni in tutti gli Stati Uniti oltre 10mila persone sono state fermate e oltre una decina uccise. L’America brucia di rabbia: colpa della pandemia e di un lockdown che ha generato un aumento drammatico della disoccupazione. Ma sullo sfondo resta anche la paura di un paese che, inquietato dalla sfida con il Dragone cinese, sembra aver perso la sua forza motrice: la fiducia. È davvero così? L’America sta vivendo un momento decisivo? Trump si gioca la sua rielezione a novembre? E quanto pesa la sfida geopolitica con la Cina? Lo abbiamo chiesto a Federico Rampini, corrispondente dagli Usa di Repubblica e autore del recente libro Oriente e Occidente.



La rabbia degli americani può sfociare in una guerra civile?

Non userei il termine guerra civile, perché ce n’è stata una, vera, ed ebbe un bilancio di morti paragonabile a quello di una guerra mondiale in proporzione alla popolazione di allora. Siamo certamente in una situazione di grande tensione, purtroppo non nuova.



Perché?

Violenze della polizia su afroamericani si sono verificate anche sotto la presidenza Obama con scontri e guerriglia urbana in diverse città. Negli anni Sessanta, poi, gli anni di Nixon, il livello della protesta e delle violenze era ben superiore. Non per sottovalutare gli scontri di oggi, ma è un film già visto.

Quale mix esplosivo sta infiammando la protesta? È solo razzismo o ci sono ragioni più profonde di un’America malata?

C’è qualcosa di inedito, una concatenazione di eventi abbastanza unica: la pandemia, i lockdown che hanno provocato una vera depressione economica con un aumento della disoccupazione spaventoso. Questo dà un carattere specifico e speciale alla crisi in corso. È un’America malata, anche in senso letterale, visto che c’è il coronavirus in circolazione. Ed è una crisi più complicata delle precedenti, che pure non furono lievi.



Le proteste nelle città americane possono pregiudicare la riconferma di Trump alla Casa Bianca? Biden potrebbe trarne vantaggio?

È sempre azzardato fare speculazioni di questo tipo. Sono cauto sul senso di euforia che avverto in ambienti Democratici. Quando la sinistra riempie le piazze, non necessariamente riempie le urne. Sottolineerei piuttosto due aspetti.

Quali?

Il pericolo che Trump capitalizzi la paura dei disordini: esattamente la stessa operazione che riuscì a Nixon nel 1968 e nel 1972 in un’America che sembrava molto radicalizzata a sinistra.

E il secondo aspetto?

Gli stessi che scendono in piazza a protestare possono benissimo astenersi il giorno del voto: i giovani sono un elettorato molto capriccioso in America, che spesso ha deluso chi si aspettava il loro consenso. Solo Obama fu capace due volte di suscitare un’alta affluenza tra i giovani e gli afroamericani.

È per questo motivo che Obama ha lanciato l’appello proprio a loro, dicendo che “questa crisi va usata per risvegliare gli Usa”?

Obama sta cercando di spendere la sua autorevolezza per confortare una nazione afflitta e rassicurare un popolo turbato. E poi sta ovviamente facendo campagna elettorale per il suo ex vicepresidente Joe Biden. Da tempo martella questo messaggio: se i giovani vogliono cambiare l’America, devono impegnarsi, devono votare. Non basta scendere in piazza.

Trump ha sbagliato nella gestione della pandemia?

Ha commesso tantissimi errori, evidenti, ma non sono questi il suo problema principale, perché in questa pandemia hanno sbagliato in tanti, con qualche eccezione. Però ha sbagliato Xi Jinping, hanno sbagliato gli italiani, i francesi… Si salvano pochi paesi asiatici.

Di che cosa, allora, si deve preoccupare Trump?

Trump potrebbe affondare se arriva al voto del 3 novembre con il 25% di disoccupazione.

Si dice, infatti, che gli americani votano con il portafoglio: Trump sta sbagliando anche sulle ricette economiche per combattere la disoccupazione montante?

Non solo gli americani votano con il portafoglio, dirlo è una semplificazione. Anche i cinesi, se soltanto potessero votare, penserebbero prima di tutto a benessere, lavoro, reddito e tasse. La risposta degli Stati Uniti a questa crisi non dipende solo da Trump, perché qualunque legge di bilancio passa dal Congresso.

Le misure più recenti sono state approvate in maniera bipartisan…

Alla fine, però, l’elettorato americano considera il presidente il responsabile della situazione economica. Per quanto le manovre di assistenza a famiglie e imprese e di rilancio della crescita siano state molto sostanziose, visto che si tratta di 3mila miliardi di dollari, il 20% del Pil Usa, tuttavia non bastano. Al momento è realistico prevedere che il 3 novembre Trump sarà in difficoltà con un’economia ancora debole.

Gli Stati Uniti stanno vivendo un momento decisivo?

È un momento estremamente delicato, perché le grandi pandemie, come quella attuale, nella storia, fin dai tempi dell’Impero Romano, sono sempre state dei grandi esami sulla tenuta di civiltà, di imperi e di interi sistemi politici. Questa, poi, cade in un’epoca in cui già l’America è piena di dubbi su se stessa: la democrazia americana è malata non di Trump, ma di una polarizzazione estrema, che viene da lontano. E c’è il grande test della gara con la Cina. Pandemia e crisi economica da lockdown sono inserite in questa nuova Guerra fredda, in questa idea che c’è una grande potenza rivale in grado di sfidare la supremazia americana e forse superarla. Questo mix genera una grande angoscia, una perdita di autostima, un forte indebolimento della fiducia nel futuro e nella tenuta di questa America.

In effetti l’Amministrazione Trump sta giocando diverse partite dure con la Cina: dazi commerciali, caso Hong Kong, la sfida sul 5G, la Nuova Via della Seta. Quanto e come Pechino sta approfittando a livello geopolitico di questa “debolezza” dell’America?

Una premessa: il deterioramento dei rapporti con la Cina non è iniziato con Trump. Io stesso notai dei pesanti peggioramenti tra Washington e Pechino nel corso del secondo mandato di Obama. Detto questo, non c’è dubbio che durante questa presidenza il peggioramento si è accelerato. La Cina sta provando a usare la pandemia per rafforzare ulteriormente la sua influenza internazionale, con molta goffaggine.

Perché?

In modo abbastanza prepotente sta cercando di voltar pagina: dai terribili errori compiuti nascondendo al resto del mondo l’epidemia iniziale ora vuole apparire come la vincitrice, il paese che ha saputo risolvere il problema meglio degli altri e che è disposto ad aiutare il resto del mondo.

Una svolta che sta avendo successo?

È una diplomazia propagandistica troppo esplicita, un tentativo di manipolare la pandemia che ha suscitato resistenze, anche in Europa, dove c’è un atteggiamento più soft verso Pechino. Quando la Cina mostra i suoi muscoli in maniera smaccata, fa capire che non è una superpotenza così benevola come vorrebbe far credere. Lo dimostra il caso di Hong Kong, dove la Cina ha platealmente gettato la maschera.

La Cina guarda con molto favore all’Europa, soprattutto a Germania e Italia, come possibili nuove piattaforme per il suo espansionismo non solo economico. Quanto è concreto il rischio che si possano incrinare le relazioni euro-atlantiche?

Siamo in una fase di nuovo bipolarismo, in cui l’Europa intera è in una posizione delicata e rischiosa. La Cina vuole influenzare l’Europa, soprattutto ricattando i paesi più piccoli così che siano portatori degli interessi di Pechino. Ma questa strategia sta generando diffidenza in Europa. Giustamente, poi, l’Europa non vuole farsi dettare dagli Usa le scelte sulla Cina, visto che si considera una potenza almeno economico-commerciale con una stazza tale da poter difendere i propri interessi. Tuttavia diventa molto difficile essere un terzo polo autonomo e il rischio di scivolare in orbita cinese è reale.

L’America e Trump resteranno a guardare?

L’America non perdona nulla, non fa sconti, il caso Huawei è emblematico. Sempre più spesso l’Europa si troverà di fronte a diktat, ad aut-aut: dovrà scegliere da che parte stare e non sarà facile coltivare l’indipendenza dai due blocchi.

Trump potrebbe essere indotto ad applicare dazi sull’industria europea?

I dazi contro la Ue, e quindi anche contro alcune produzioni italiane, non c’entrano con la Cina. Gli Usa colpiscono l’Europa con i dazi per via di contenziosi bilaterali, alcuni vecchissimi come la vicenda Boeing-Airbus. E qui sta uno dei limiti dell’approccio di Trump: non ha una strategia di alleanze. In un momento in cui è forte la tensione con la Cina, l’America dovrebbe tentare di stringere la coalizione atlantica, di compattarla. Picchiare duro con gli europei sui dazi per regolare vecchi conti bilaterali è un errore strategico non da poco.

Anche l’Italia ammicca alla Cina. Cosa pensa l’America di noi?

Gli Stati Uniti sono stati molto veloci e molto duri nel condannare la decisione del governo Conte di firmare il Memorandum sulla Nuova Via della seta. Gli Usa sono, e lo dicono in tutte le occasioni, molto preoccupati che la Cina si espanda in Italia, un paese strategico nel Mediterraneo. Sono vigilanti e inquieti.

Lei ha indagato nel suo ultimo libro Oriente e Occidente (Einaudi), i rapporti millenari tra queste due aree che rappresentano due visioni del mondo. Dobbiamo aspettarci una nuova rottura o un nuovo equilibrio fra Est e Ovest del mondo?

Il mio libro parte dall’epoca in cui visse Confucio, personaggio attualissimo, e racconta 2600 anni, affascinanti e pieni di sorprese, di rapporti tra Oriente e Occidente, ma è ricco di lezioni per decifrare il modo con cui oggi Oriente e Occidente si osservano, si studiano, si confrontano, si sfidano. In questo arco di tempo l’Asia è sempre stata superiore, per demografia, territorio, storia, ricchezza, cultura, scienza, tecnologia. Non è mai stato un rapporto equilibrato, né pacifico, anzi parlerei di squilibri proficui. Noi abbiamo lo sguardo deformato solo degli ultimi 300-400 anni, quando l’Occidente ha effettuato il sorpasso. Adesso siamo sconcertati da questo ribaltamento nei rapporti di forza; visto dall’Asia, invece, è del tutto fisiologico, è un ritorno alla normalità: la Cina torna a essere il centro del mondo come lo è stata per alcuni millenni della sua storia. È importante tenere presente questa divergenza di prospettive.

Ma dopo la pandemia chi tra Occidente e Oriente si risolleverà per primo?

Da questa prova terribile usciranno ovviamente dei vincitori e dei perdenti e penso che i vincitori siano già adesso in Asia. Osservando chi ha gestito meglio la pandemia, molto più della Cina mi colpiscono il Giappone – dove si contano solo 890 morti su 125 milioni di abitanti -, la Corea del Sud e Taiwan. Sono tre democrazie, simili a noi, che non hanno mai fatto ricorso ai metodi autoritari alla Xi Jinping, che considero inaccettabili. Ma più la Cina si rafforzerà dopo la pandemia, più nelle sue immediate vicinanze si rafforzeranno le resistenze al suo egemonismo.

(Marco Biscella)