L’incontro di martedì tra il presidente del Consiglio, accompagnato dai suoi ministri delegati a Lavoro, Economia e Pa, e le organizzazioni sindacali ha aperto il confronto sui temi più caldi della cosiddetta agenda sociale. Intorno a questi temi si è poi avvitata la difficoltà dei pentastellati che rischia di portare a una crisi di governo.



Vedremo nei prossimi giorni se prevarrà l’arroganza e la predisposizione antinazionale dell’avvocato con la pochette o se il Parlamento darà conferma con maggioranza a chi ritiene che, data la grave situazione economica e internazionale, debbano prevalere gli interessi degli italiani e quindi arrivare con un Governo Draghi fino alla fine della legislatura. Purtroppo luglio è mese maledetto per la tenuta mentale dei leader giallo-verdi ed è quindi difficile fare previsioni.



Dobbiamo però prendere sul serio i temi che sono stati messi al centro del confronto fra Governo e forze sociali perché segneranno le politiche del lavoro non solo di questi mesi ma del nostro immediato futuro. Finora si è cercato di rispondere ai problemi sociali insorti con la crisi sanitaria e ai primi impatti della guerra con interventi di sostegno economico ai ceti più colpiti. Se i temi non sono solo contingenti sarà bene uscire dalla politica dei ristori e passare a scelte più strutturali con riforme e politiche di medio periodo.

I tre temi posti nel confronto toccano la questione delle nuove diseguaglianze e dei lavori poveri, la questione della partecipazione attiva al mercato del lavoro e la scomparsa di alcune professionalità e infine il tema dell’allungarsi della vita lavorativa e il connesso sistema pensionistico. Vediamoli non solo per gli aspetti contingenti, ma nella loro complessità, perché se oggi si presentano in modo rafforzato è anche perché la crisi pandemica ha provocato un’accelerazione di fenomeni comunque in atto.



La questione salariale riguarda certamente il tema del salario minimo. Come da più parti sottolineato, l’Italia vede la copertura di oltre l’80% dei lavoratori coperti da contrattazione e quindi è invitata, dall’indicazione europea, a dare sostegno a questo metodo più che legiferare una cifra fissa per legge. La proposta avanzata di dare forza di legge al valore complessivo del costo orario definito dai contratti più rappresentativi pare un buon avvio su cui lavorare. Non esaurisce però certamente il tema del lavoro di qualità e delle nuove diseguaglianze. Un nuovo dualismo fra lavoro tutelato e lavori poveri sta creando fasce di attività dove non si arriva a un salario dignitoso. 

Vi sono aspetti settoriali, contratti di alcune categorie, differenze geografiche che determinano tendenze in atto nei mercati del lavoro di tutti Paesi avanzati. Non bastano interventi che indicano nella forma contrattuale la via d’uscita. Serve abbinare all’abolizione dei finti contratti di lavoro misure contro il part-time involontario e nuove misure di sostegno al reddito contro le povertà. Porre al centro delle politiche la persona e la dignità del lavoro non è solo legato ai 9 o 7 euro l’ora.

Il secondo punto riguarda la costante lamentela di imprese che non trovano lavoratori adeguati. La risposta a effetto è: pagateli di più e vedrete che salteranno fuori. Possibile che pagandoli di più troveremmo abbastanza infermieri o medici per tappare i buchi che abbiamo? Forse fermeremmo un po’ dell’emigrazione in atto nel settore, ma non basterebbe certo a coprire il fabbisogno. Scusate l’accostamento, ma per i cuochi è lo stesso. Durante la pandemia si sono ricollocati e nessuna programmazione o programma di orientamento ha pensato di coprire i buchi che si sarebbero aperti con la ripresa delle attività. 

Sono ormai tantissime le professioni che richiedono una formazione per poter inserire lavoratori all’avvio delle diverse carriere. Il manovale generico non esiste praticamente più. Su questa situazione pesa il mismatching esistente fra percorsi formativi ed educativi e le esigenze del sistema produttivo, ma dobbiamo fare i conti con i dati demografici. Non è più tema da convegni il futuro demografico. Per fare un riferimento personale, i nati del ’56 stanno ritirandosi dal lavoro ma i nati del ’96 che dovranno sostituirli, oltre che azzeccare gli studi da fare, sono quasi il 30% in meno. Chi copre le quote rimanenti? 

Visto che il mercato del lavoro sta allargandosi ancora dovremo prevedere percorsi di orientamento che portino ad avere una migliore offerta di lavoro, guidare flussi di immigrazione per coprire le figure professionali scarse e una domanda di lavoro che sia per tutele che per salari e produttività sia competitiva con i Paesi concorrenti.

La generazione del ’56 si è autodefinita la generazione che non invecchia per tenere a lungo il suo sogno giovanilista. È forse per questo che ha snobbato quota 100 e il dibattito sullo smettere prima di lavorare. Però poi un limite se non se lo danno da soli è la natura che glielo assegna. Così anche i boomers stanno pensionandosi. Hanno aperto però il tema che va affrontato insieme agli scivoli di uscita dei pensionati. Dopo i 50 anni, con l’accelerazione di cambiamenti delle tecnologie, vi sarà bisogno di cicli formativi per rimanere nel mercato del lavoro. Assieme a questi vi sarà bisogno di lavori che potranno valorizzare gli skills professionali dei lavoratori anziani. Sono temi che si reggono assieme e che sono oggetto di confronto in tutte le economie avanzate.

Questi temi richiedono adesso analisi accurate di quanto accade ed accadrà nel nostro mercato del lavoro. Uscire da una visione di breve periodo e passare a impostare il mondo del lavoro di domani non è solo un fatto di bonus da distribuire, ma un impegno che chiede analisi, studio e passione per l’uomo e il lavoro.

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