Quando si è nell’occhio del ciclone è davvero difficile capire dove la tempesta si dirigerà e cosa succederà. L’unica cosa certa è che quanto sta avvenendo, dall’apparire del Covid-19 in poi, sta cambiando il corso della storia.

A pensarci bene, il ruolo che ha assunto nel frattempo la comunicazione è davvero paradigmatico della confusione che sta sconvolgendo il mondo. Sono sotto gli occhi di tutti le diatribe tra scienziati innanzitutto sulle origini del virus, e poi sulle precauzioni da prendere e le cure da attivare. Diatribe che vengono amplificate dai social network, che oramai hanno un ruolo chiave nella formazione del sentiment della popolazione, come lo chiamano i sociologi.



Se da un lato rendono possibile la diffusione delle informazioni più diverse, dall’altro facilitano la circolazione delle fake news più assurde. E qui la situazione si complica, perché i siti che si intestano l’autorità di cacciatori di bufale si trovano assai più spesso a svolgere un’opera di disinformazione sugli argomenti considerati scomodi dai loro finanziatori. Lo si capisce dal fatto che o sono gestiti da semplici tecnici informatici, o da giornalisti con un curriculum da cui si evincono stretti legami con i cosiddetti padroni del vapore.



Secondo gli editorialisti dei grandi quotidiani, il web è il luogo dove più facilmente albergano le falsità. Ma basta avere un parente o un collega che vive negli Stati Uniti, ad esempio, per capire che la narrazione che ci viene servita dagli inviati dei maggiori quotidiani risente a sua volta di una lente assai ben colorata politicamente.

Purtroppo è una lente che inconsciamente usiamo tutti: si chiama confirmation bias. Un termine coniato dal Prof. Raymond Dickerson, docente di psicologia alla prestigiosa Tuft University: il termine sta a significare che tutti noi tendiamo a cercare prove ed evidenze a sostegno delle nostre idee e a rigettare quelle contrarie a esse. Così crediamo alle notizie e alle fonti che confermano la nostra idea politica o la nostra visione del mondo, e tendiamo a rigettare o a delegittimare ciò che vi si discosta. Mentre dovremmo cercare di ragionare lucidamente, prendendo in considerazione anche gli elementi che non ci piacciono, come fanno gli scienziati entusiasti per una nuova scoperta: una volta sicuri della loro intuizione, vanno alla caccia di tutto quanto può smontarla per provarne la solidità.



Un esempio sono i fatti di Capitol Hill: La Stampa e la Repubblica hanno parlato di “Colpo di Stato”, quando non c’erano né carri armati, né plotoni in assetto di guerra. E poi basta ascoltare la testimonianza di un professore di storia moderna della St. John’s University, che ha partecipato alla manifestazione con intenti pacifici come tanti altri, per capire che le cose sono andate piuttosto diversamente da come ci sono state raccontate. Ma appena si prova a sollevare qualche dubbio sulla versione “Colpo di Stato” si viene addirittura accusati di essere adepti del movimento QAnon, alcuni dei quali hanno partecipato alla manifestazione agghindati in maniera grottesca.

A ben vedere osserviamo due grandi fazioni: da una parte ci sono quelli che difendono per principio il potere consolidato, credono ciecamente all’informazione cosiddetta mainstream (che è quasi sempre una diretta emanazione del potere medesimo), dall’altra un variegato popolo che comprende moderati, liberali, conservatori, e anche individui che intravvedono complotti ovunque e quindi vengono definiti complottisti.

Paradossalmente i primi stanno a sinistra (il paradosso sta nel fatto che difendono indirettamente il capitalismo più feroce e lo sfruttamento dei popoli più poveri), mentre gli altri stanno a destra, dove albergano ai margini anche frange di estremisti. Basta dare una scorsa ai post sui social network per scoprire come le due fazioni raramente discutano e assai più spesso trascendano nel darsi reciprocamente dell’imbecille.

Altrettanto succede tra Repubblicani e Democratici: gli uni sostengono che le elezioni sono state truccate, gli altri che sono state del tutto regolari. Dato che i molti ricorsi dei Repubblicani sono stati bocciati per motivi procedurali, e praticamente mai discussi nel merito, il dubbio è rimasto, e i sondaggi rivelano che buona parte del popolo americano pensa che i trucchi ci siano stati davvero. A sentire diversi esperti di storia politica, il sistema elettorale americano sembra essere stato fatto apposta per essere suscettibile di brogli, per far vincere il più abile a farli. È indubbiamente una tesi dura da digerire, visto che stiamo parlando della democrazia più grande del mondo…che però, con la scusa di esportarla ha innescato con notevole frequenza guerre in ogni parte della terra.

Ci voleva Federico Rampini, da sempre uomo di sinistra, per affermare con grande onestà intellettuale che Trump – a differenza dei suoi predecessori – non ha fatto nessuna guerra, ha risollevato l’economia americana, ha offerto migliori condizioni di vita a milioni di operai, tra cui molti neri. Ma secondo i suoi avversari ha nel frattempo vellicato la pancia dei cittadini più beceri, conservatori e “patriottici”, includendo e legittimando le più diverse frange estremiste. Professando il più marcato sovranismo, importando in politica un linguaggio aggressivo e scorretto. E sbagliando tutto sulla gestione del Covid-19.

Ora i Democratici ne chiedono nuovamente l’impeachment accusandolo di aver istigato all’assalto del Parlamento; in seguito alle sue modalità comunicative ritenute fomentatrici di odio, Facebook e Twitter hanno sospeso il suo account: eccoci di nuovo al ruolo della comunicazione.

Anche in questo caso si stanno scontrando due fazioni: c’è chi ritiene che sia un dovere civile dei social network impedire l’hate speech (discorsi di odio) e, visto che si tratta di imprese private, possono imporre le regole che vogliono. E c’è chi ritiene invece che essendo di fatto monopolisti non possono censurare nessuno, anche perché sono mere piattaforme – ruolo che hanno sempre rivendicato – mentre se intervengono sui contenuti diventano editori (con una notevole serie di conseguenze).

È interessante notare che gli editorialisti del Corriere della Sera si sono divisi a metà su questo tema. I più illuminati, pur essendo tutt’altro che filo-Trump, hanno saputo vedere oltre il proprio confirmation bias, sostenendo che i social network non possono censurare nessuno, a meno che non vengano violate palesemente leggi esistenti. Tra questi il Direttore Luciano Fontana, Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Antonio Polito. Chapeau.

(1- continua)