Nove anni fa Daisy Coleman fu vittima di violenza sessuale insieme alla sua amica Audry. Netflix scelse questa, fra mille storie, per denunciare non solo le ferite che la violenza lascia nella vita delle persone, ma anche per stigmatizzare il clima che si crea attorno alle donne abusate, un clima che a volte è peggio della violenza stessa perché tendente a colpevolizzare le vittime e a giustificare i carnefici.
Oggi, dopo essere diventata attivista di diverse associazioni contro la violenza sulle donne e dopo che Netflix ha distribuito il documentario, la Coleman si è suicidata, schiacciata dal peso di una storia che, evidentemente, non basta raccontare o denunciare per superare. Difficile commentare un episodio come questo, con tante dinamiche che si intrecciano e con poche certezze circa il vissuto di chi ne è stato al centro. Ciò che si può suggerire, e che la vicenda insegna, è triplice. Anzitutto è evidente che la realtà agisce in noi a due livelli: uno oggettivo, quasi scientifico, e uno intimo – soggettivo – che segue leggi e tempi non standardizzabili, ma effettivamente reali.
Lo possiamo vedere in modo esemplare nei malati di tumore che guariscono: la guarigione fisica dal tumore non coincide con la guarigione della persona, un processo molto più lento e imprevedibile che ben si adatta a tutte quelle situazioni – compresi i casi di violenza – in cui l’Io ha bisogno di un lavoro concreto su di sé per comprendere quanto effettivamente è accaduto e quale nuova realtà quello che gli è occorso ha poi creato. Succede nelle perdite, nelle separazioni, nei lutti, perfino nei traslochi: quello che accade dentro è invisibile da fuori e non può essere lasciato alla mercé del pettegolezzo o di un giudizio falsamente “amico”.
Daisy ha sperimentato un fatto devastante la cui portata è davvero ignota. Sappiamo però che ha pensato di combattere, ossia di reagire a quanto provato, con un’azione di denuncia e di narrazione: si è illusa che, “facendo”, la ferita del cuore si sarebbe rimarginata e che “narrando” episodi del genere non sarebbero più accaduti. È chiaro che chi sperimenta orrore si debba concedere di errare a lungo per le tortuose vie della psiche e dell’anima per poter ritrovare qualcosa che sia simile a un bandolo da cui ricominciare e ripartire. Ciò non avviene impegnandosi attivamente in un’azione benemerita, ma coinvolgendosi in un rapporto in cui è possibile intravedere quella luce in fondo al tunnel che disperatamente si cerca: per risorgere non occorre “dare il meglio” o “cambiare”, ma stare con gente risorta.
Daisy ha aiutato molto, mentre ancora doveva farsi aiutare e ha scambiato il proprio attivismo per una cura e non per un sintomo del trauma subito. È decisivo, in questo senso, chi permettiamo di affiancarci nei momenti di buio più anche di quello che concretamente ci disponiamo a fare: è l’aria che respiriamo che cambia la nostra aria, è lo sguardo al cielo che rende i nostri occhi azzurri.
Infine è chiaro che Daisy ha sperato con tutto il cuore che ciò che le è accaduto potesse servire a qualcosa, mentre la violenza non serve a niente se non a farci entrare in contatto col lato oscuro della realtà. Il male non è cancellabile, superabile, dimenticabile, ma solo – misteriosamente – perdonabile.
Anche le vicende che coinvolgono diversi esponenti del mondo ecclesiastico finiscono per essere insormontabili, a meno che – dopo la necessaria e rigorosa giustizia – non siano illuminati dalla fioca luce di un Bene più grande che genera nel cuore il fiore del perdono. Questo non si può chiedere, ma pensando a Daisy e a tutte le altre vittime dell’abominio della violenza che soffrono in silenzio, si può almeno sperare. Sangue chiama sangue, occhio chiama occhio, dente chiama dente: a meno che qualcuno non interrompa il circolo dell’orrore con un atto di pietà, un gesto di novità, un inizio di misericordia.