Il tema della formazione torna a scuoterci quando alle domande sulla storia recente del nostro Paese le risposte non sono solo vaghe, ma mostrano lacune e vuoti che indicano superficialità e approssimazione. Eppure c’è stato un tempo in cui la regola era raccontare con lo sguardo di chi vuole capire e dare risposte.
Un tempo in cui, sia nella cronaca che nelle inchieste, giovani e vecchi professionisti dell’informazione raccontavano con l’umiltà dell’artigiano che laboriosamente osserva, ascolta, e nel dare parola alla pluralità delle voci offriva un servizio per capire cosa accadeva e perché. Per amore dell’opera in corso, compiuta o incompiuta, perché la realtà è uno specchio che racconta anche noi stessi e chi siamo oltre le apparenze.
Un caro amico cercò di sollevarmi dallo scoramento per essere stati accusati della strage di Bologna del 2 agosto 1980, accusa che negava la nostra vera storia di militanti di destra nel Movimento sociale italiano. Mi raccontò i suoi inizi da cronista e mi invitò a non cadere nelle trappole degli avvelenatori di pozzi.
E pensai che si riferisse alla fallacia argomentativa che si produce quando, per attaccare la tesi della controparte, si tenta di delegittimare pubblicamente l’altro per screditare qualunque cosa dica. Poi mi è tornata anche in mente un’immagine degli antichi romani: ovvero il pozzo dalla limpida acqua dove si manifestava la dea Veritas e si narrava che, nel suo bosco sacro, le sacerdotesse attingessero a quell’acqua fonte di sogni rivelatori, ma anche mezzo di guarigione per chi l’avesse bevuta. Finché l’acqua fosse stata nel pozzo. L’acqua era il bene prezioso e il timore della dea deve aver tenuto lontani gli avvelenatori di pozzi. A nessuno sarebbe venuto in mente di avvelenarla.
Possiamo dire la stessa cosa oggi? Sembra proprio che gli avvelenatori di pozzi siano ben organizzati e purtroppo fanno scempio di verità e incidono così anche sulla formazione e la cultura. Quello che ci aspetteremmo oggi è un servizio d’informazione dove la notizia sia data in un pozzo d’acqua limpida. Non lo pretendiamo ad ogni costo, soprattutto in un contesto dove tutto sembra dipendere dalla velocità in cui si comunica e non riusciamo quasi a soffermarci più su nulla; ma vorremmo almeno non essere ingannati e intossicati, perché le notizie e la loro narrazione sono terreno fertile nelle nuove generazioni, il futuro del Paese.
Per quanto riguarda il contesto in cui lavoro, l’informazione è fondamentale per veicolare la conoscenza dei diritti umani e civili in modo che siano affermati e ricordati a tutti, anche a coloro che li danno per acquisiti e credono che la loro negazione non ci riguardi perché si tratta di popoli lontani, come se non fossero simili a noi.
Marco Pannella sosteneva che dove c’è strage di diritto c’è strage di popoli e per diritto intendeva diritto alla conoscenza, che dovrebbe essere il presupposto a che la menzogna non sia mai ammissibile, anche se viene affermata in modo inconsapevole. La menzogna resta un peccato contro la verità e contro quel bene che presuppone il vero. In questi tempi dove chi grida più forte ha ragione e le persone sono meri oggetti da lanciare nel frullatore della comunicazione, l’amore per la verità è vista come una pratica antipolitica da perseguire scrupolosamente perché fa sentire migliori sugli altri, e la menzogna viene assunta a capacità dell’uomo di trasformare la realtà e sentirsi padroni della vita del prossimo. Il cammino è pieno di insidie, pensiamo ai Paesi in guerra, alle dittature, alle democrazie non compiute dove censura e disinformazione sono lo status quo.
Eppure c’è un modo per non soccombere alla menzogna. Riprendere il contatto con noi stessi, non arrendersi alla paura per la verità, alla negazione della sua ricerca. Nessuna democrazia può avanzare se si pensa che ci sia una verità non detta o peggio che si ritenga inconoscibile, perché il passaggio successivo non può che portare ai totalitarismi che abbiamo studiato e che tuttora sono a poche centinaia di chilometri da noi con le crudeltà e le deportazioni di intere comunità.
La verità, per chi si occupa della cosa pubblica e per chi fa informazione, dovrebbe essere il pozzo d’acqua a cui tutti possono attingere e garantirne la sua difesa. Chi non crede in questo, consegna sé stesso e il suo agire alla forza.
Di recente ho voluto rivedere l’inchiesta televisiva La notte della Repubblica di Sergio Zavoli che venne trasmessa alla fine degli anni 80, con particolare attenzione all’epilogo, che andò in onda la sera dell’11 aprile 1990. Era un bilancio, da parte dei rappresentanti della politica di ogni schieramento, degli anni della lotta armata in Italia. Volevo riascoltare la voce di quei politici di allora e la capacità di dialogo e di ascolto che il giornalista aveva instaurato con i protagonisti di quella che è stata la dolorosa storia della lotta armata contro lo Stato da parte delle formazioni di sinistra e di destra nel nostro Paese. Cercavo di capire come fosse stato possibile che da quei dialoghi drammatici emergesse una capacità di ragionare. Erano riflessioni senza il sordo rancore che avrebbe dovuto e potuto emergere da ogni parte. E mi chiedevo perché dopo nemmeno trent’anni siamo mutati così profondamente in una sorta di attacco scomposto al racconto dell’altro. Il perché di un infierire violento dove nemmeno gli innocenti vengono risparmiati. Ho ascoltato e guardato quel servizio che non mi ha lasciato la sensazione di una dannazione, ma del desiderio sincero di andare avanti senza dimenticare. Nel frattempo si resta attoniti davanti alla furia di queste Erinni per un’informazione fondata sulle menzogne che non vorrebbe lasciare scampo. Eppure non ci sono solo loro.
Il Paese è migliore di quanto vorrebbero narrare. Lo si comprende da quelle persone che, a dispetto di tutto, continuano ogni giorno a svolgere il proprio lavoro con la passione e l’umiltà dell’artigiano e, alla furia delle Erinni, rispondono con l’acqua limpida dei pozzi.
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