RIO DE JANEIRO – Il più giovane capo di Stato del mondo, il presidente cileno Boric, ha dato una lunga intervista a Time. Imbeccato dall’intervistatore, ha affermato che se Bolsonaro non accettasse il risultato delle prossime elezioni presidenziali l’intera America Latina dovrebbe intervenire. Non ha usato la parola “golpe” ma tutti hanno capito.
Seguendo, come sempre, la tendenza statunitense, oggi l’America Latina è molto più “rossa”.
Biden è eletto alla fine del 2020, nel 2021 la sinistra vince in Perù e in Cile e in maggio del 2022 anche la Colombia si aggiunge al gruppo, assieme agli “storici” Venezuela e Bolivia.
La “marea rosa” dovrebbe essere confermata anche il mese prossimo in Brasile. Le ricerche di mercato danno Lula, il padre fondatore del Partito dei lavoratori, al 42% delle intenzioni di voto. Bolsonaro, nonostante l’aumento dei sussidi ai poveri, vari passaggi televisivi e un miglioramento dell’economia e del livello di occupazione, non si stacca dal 32%. Se non dà in fretta qualche segnale di ripresa la sua coalizione potrebbe sfaldarsi e dare la vittoria a Lula già nel primo turno.
L’intervento di Boric sembra la tipica demonizzazione dell’avversario, mettendo le mani avanti in caso fosse necessario, giustificata anche da un’animosità personale dopo che Bolsonaro lo aveva accusato di aver incendiato il metro di Santiago durante le proteste del 2019, ma in Sud America parlar di golpe ha un peso particolare, e vale la pena approfondire.
Il Brasile è stato 21 anni sotto la dittatura militare, finita nel 1985 e ancora ben viva nella memoria della gente. Ad un livello più radicale, l’esercito ha sempre avuto un ruolo politico e istituzionale a cui noi non siamo abituati. In Europa lo Stato moderno si è affermato lottando con una società e un sistema – spesso confusionario – di autonomie che lo precedevano. Con la colonizzazione invece lo Stato è entrato in un mondo vuoto, occupando senza contestazione tutti gli spazi. In questo scenario l’esercito si è trovato ad essere una delle poche realtà organizzate, che entrava in campo quando la situazione lo richiedeva. Il primo presidente del Brasile dopo la deposizione della monarchia (rea di aver abolito la schiavitù nel 1888) era, ad esempio, un maresciallo.
La Costituzione del 1824 affiancava al legislativo, esecutivo e giudiziario il “potere moderatore”, affidato al re, con il compito di garantire l’armonia e la cooperazione tra gli altri poteri. È assente nelle repubbliche presidenziali, ed è un ruolo simile a quello del nostro presidente della Repubblica (vedendo dove non c’è, se ne apprezza l’importanza).
Nella Costituzione del 1891 questo potere viene abolito, ed è di fatto assunto dai militari. Questo rimane talmente nel Dna brasiliano che la Costituzione attuale – promulgata nel 1988, poco dopo la fine della dittatura militare! – afferma, con una certa ambiguità, che le Forze armate sono destinate alla “garanzia dei poteri costituzionali” e lo stesso Bolsonaro nel 2021 ha affermato che loro sono “il potere moderatore”. Insomma, in Brasile il golpe deve essere trattato con estrema prudenza: è nitroglicerina, non dinamite.
Non è questo lo stile di Bolsonaro. Tra manifestazioni popolari intimidatorie davanti alla Corte Suprema e insinuazioni sulle urne elettroniche contraffatte ha dato molte spallate alla struttura istituzionale della democrazia brasiliana. Paradossalmente, il freno è venuto dai propri militari, che non hanno nessun desiderio di salire alla ribalta politica come istituzione (mentre a livello personale il governo è pieno di militari in pensione) e hanno cercato di tenere il profilo più basso possibile senza mettersi contro il presidente.
Bisogna poi considerare che il Brasile non è una repubblica delle banane. È una democrazia matura che in 30 anni ha deposto un presidente di destra e uno di sinistra e ha avuto cambi di potere radicali, il tutto senza traumi e anche con una pragmatica continuità delle politiche di fondo.
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