“Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce. (…) Questo è stupefacente ed è proprio la più grande meraviglia della nostra grazia. E io stesso ne sono stupito” (Charles Péguy).
Molti che leggeranno questo contributo riconosceranno le parole di Péguy e forse si chiederanno che cosa possa c’entrare con l’ambiente dal quale provengono queste righe, la Casa di Reclusione di Opera. Invece, è proprio lì che sono state portate dall’Associazione Incontro e Presenza che, com’è ormai consuetudine, ha organizzato il “pranzo a tema” rivolto a tutti i detenuti che frequentano i volontari che spendono il loro servizio con loro.
Nella parola “consuetudine” c’è un tocco di ripetizione, di ordinarietà, di già visto, che potrebbe far pensare che questo momento sia magari piacevole come tutte le riunioni conviviali, ma che finisca lì, in qualche ora passata insieme con leggerezza. Si badi che già questo sarebbe – ed è! – molto, in un posto come questo; e se anche fosse tutto lì ci sarebbe da ringraziare chi prepara e conduce una simile occasione. Ma non è affatto “tutto lì”.
È davvero una consuetudine stra-ordinaria questo “Pranzo senza maschere”. Perché mentre si mangia (davvero bene, va detto pure questo. Il cibo è confezionato all’esterno delle mura, con cura e dedizione, da mani esperte e generose che si danno da fare con perizia, per cui arrivano pietanze curate: un grazie speciale a chi ha lavorato per questo!) si conversa.
Non si chiacchiera, non ci si perde in mille rivoli di discorsi banali, non si fa rumore… si conversa. Parola forte e del tutto improbabile in questi luoghi, dove normalmente non lo si fa: qui si grida molto, si litiga un po’, si scherza e si ridacchia, si scambiano informazioni, si racconta dell’ultima frizione con le autorità… ma conversare, no; non accade quasi mai.
Invece, al “Pranzo senza maschere” viene lanciato un tema che possa riguardare tutti i presenti e poi si interviene per dire che cosa è germogliato nella mente e nel cuore. Sotto l’esperto governo di Guido Boldrin, maestro di cerimonie per l’occasione, sia i volontari che gli “ospiti” dicono la loro e – qui s’annida il primo livello di straordinarietà – si ascoltano reciprocamente. Con pazienza, con attenzione, con interesse. Persone pochissimo abituate a dar retta agli altri, lo fanno e ci si impegnano. Così il discorso fluisce, ogni intervento si aggancia al precedente, anche l’eventuale disaccordo è motivato, illustrato, argomentato. Ha dell’incredibile.
Quest’anno il tema della speranza, lanciato e stimolato dal passo di Péguy, era stato annunciato in precedenza: gli invitati avevano ricevuto un foglio con il passo dell’autore francese e hanno avuto il tempo di pensarci. Un argomento piuttosto arduo, per nulla scontato, una vera “provocazione” com’era scritto in quel foglio preparatorio, cui in molti hanno dedicato tempo in anticipo – e questo è il secondo livello di straordinarietà -, riflettendo prima del pranzo. Cosi s’è discusso sul vero significato di questo concetto, dalle speranze materiali e di breve respiro a quelle più grandi e alte; si è detto come sia difficile sostenere il peso delle disillusioni, anche di quelle piccole; si è visto il rapporto tra la speranza e la libertà, o il tempo. Ancora, s’è cercato di chiarire come la speranza vera sia quella che si augura l’avvenire del proprio vero essere, quella soddisfazione del desiderio interiore che ci fa compiuti e che rispecchia il disegno di Dio.
Probabilmente, di speranza si potrebbe ancora dire molto; qualche intervento ha lanciato piste che avrebbero meritato più approfondimento, qualcuno è andato un po’ fuori tema. Al termine delle due ore, cioè quanto la direzione del carcere concede per questo evento, ci sarebbe ancora stato bisogno di sentire e commentare. Ma la prova sicura che l’occasione è stata ben spesa è nel “dopo”. In parecchi hanno continuato a parlarne, hanno ripreso l’argomento, hanno riflettuto… non accade spesso ed è un segno: il “pranzo senza maschere” lascia sempre una traccia.
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