“Ma dai, un’altra presentazione di un libro! Che barba”. “Uffa, storie della Seconda guerra mondiale. E chissene….”. “Ho capito, è un tuo amico, ma a me?”. Questo raccoglievo nelle settimane precedenti al giorno in cui ci sarebbe stata la presentazione di Vite incrociate di Antonio Besana. È vero, Antonio è un mio amico, viene a Opera come volontario di Incontro e Presenza, ci parliamo spesso condividendo interessi. Lui si definisce uno storico dilettante, ma ce ne fossero di dilettanti come lui. Ha scritto diversi volumi sulla Prima e sulla Seconda guerra mondiale, tutti interessanti. Io, quindi, facevo pubblicità all’evento, convinto che ne valesse la pena. Alle rimostranze rispondevo con un semplice: “Vieni e vedi”. È sempre la linea migliore: inutile cercare di convincere, meglio proporre e sollecitare una risposta. Chi è venuto ha visto.
Non so che idea si abbia della presentazione di un libro, ma nel teatro del carcere quasi pieno, con la presenza (fatto straordinario) di molti detenuti anche dell’Alta sicurezza, si è svolto un momento coinvolgente. Besana è stato bravo, perché ha introdotto il suo libro in una maniera dinamica e partecipata, con l’ausilio di fotografie dei luoghi e dei personaggi di cui racconta. Con un tono spigliato e affabile. È persino stato aiutato da un guaio tecnico: non funzionava il microfono per cui ha dovuto parlare dal centro della sala perché la voce arrivasse a tutti. Così è stato ancora più vicino, immerso tra i presenti. Il libro descrive le vicende di combattenti che, nemici, hanno saputo riconoscersi nel momento della difficoltà e si sono aiutati, soccorsi, salvati al di là di schieramenti e bandiere.
L’avevo detto ad alcuni dei più rognosi, prima, che il modo in cui Besana parla di guerra è diverso, che lui parla delle persone e va al cuore dei loro pensieri, bada alla virtù, al valore, non gli interessano armi e violenza. Ascoltarlo, quel sabato mattina, lo ha confermato. Ma non basta. Alcuni degli “ospiti” di Opera avevano avuto modo di leggere il volume e sono intervenuti. Uno ha sottolineato che “i piccoli gesti eroici o i piccoli miracoli” di cui si parla a proposito di fatti ormai remoti continuano: il mondo è ancora pieno di guerra e di disagio e reclama interventi di cui poi non si sa molto, ma sono, invece, il tessuto della civiltà.
Un altro, con lunghi trascorsi, ha commentato l’episodio in cui Besana racconta di aviatori inglesi e tedeschi precipitati sulle montagne della Norvegia che trovano rifugio nella medesima capanna, dovendo coabitare per non morire di freddo: “Il rifugio che ha ospitato quei soldati diventa per me il carcere in cui vivo. Anche per me è il luogo di incontro con persone ‘nemiche’, separate per l’appartenenza a schieramenti criminali opposti. Con alcuni di loro, invece, è nata empatia che ha condotto all’amicizia. L’essersi trovati, come gli ufficiali nel rifugio, fuori dalle logiche mortifere ha fatto emergere il meglio”.
Infine, c’è chi, colpito dal racconto del pilota tedesco che sceglie di non abbattere un bombardiere americano già gravemente compromesso e di aiutarlo a dirigersi verso la salvezza, impedito a sparare dal piccolo rosario che porta nel taschino della tuta di volo, ha commentato: “Sono lontanissime circostanze e vicende individuali, ma anche qui siamo chiamati a scelte esistenziali. Sono le scelte personali che determinano il modo in cui viviamo, come hanno determinato il modo di quelle persone nel loro stare in guerra. Noi non dobbiamo compiere atti ‘da guerra’, ma interiormente forse sì, combattiamo una guerra. Contano le risorse interiori, conta la tensione che vi si mette, contano le relazioni autentiche. Conta la dimensione spirituale”.
Così chi poi è venuto (non pochi dopo tutto, l’insistenza dà i suoi frutti) è stato contento. Non si aspettava di trascorrere una mattinata in cui si è ragionato sulla guerra – e forse, ancora di più, sul carcere – come di solito non si fa. È stato assai costruttivo. Grazie Antonio.
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