“La salvezza passa attraverso i bambini, per il loro sguardo pieno di meraviglia e di stupore rispetto a sé stessi e agli altri”: così scriveva Vasilij Grossman (1905-1964) alla fine degli anni 50 commentando un fatto di sangue in Palestina, cioè nella Terra Santa che anche lui, ebreo russo, riconosceva come una Patria ancora tutta da definire, da ritrovare, da sviluppare. C’era stato un combattimento, l’ennesimo; erano morte persone da entrambe le parti, ma i giornali dell’epoca riportavano la fotografia di una bimba di pochi anni che sorrideva al fotografo, nonostante tutto. E lui scrisse, sul giornale per cui lavorava, quella frase.
Anche nei giorni scorsi i servizi televisivi sono stati riempiti dalle immagini dei bambini di Gaza che ricevono la vaccinazione antipoliomelitica, mentre intorno infuria la guerra che concede limitatissime aree di “quasi-tregua” perché si possa procedere alla cura. Si vedono madri giovanissime che hanno in braccio infanti, se ne vedono altre con al seguito due, tre figli più grandicelli; e le assistenti sanitarie – anche loro, quasi tutte donne – che distribuiscono gocce ai più piccini, che praticano l’inoculazione ai “grandi”. Ce la faranno a dare a tutti il rimedio? E ci sarà tempo per la seconda dose, necessaria dopo circa un mese dalla prima? Immagini rassicuranti e ancora una volta vien da dire che la salvezza, a tutti i livelli, passa attraverso i bambini: Grossman profetico.
Ma poi le medesime televisioni mostrano quel che accade in Cisgiordania dove non c’è requie, fanno vedere gli effetti dei razzi di Hezbollah sul nord di Israele e le risposte a carico del Libano, i sei ostaggi israeliani “giustiziati” barbaramente nei tunnel per non consentire ai soldati con la Stella di David di trovarli e i bersagli individuali raggiunti con spietata efficienza.
Ogni giorno si succedono dichiarazioni e proclami delle varie parti, del governo di Israele assai diviso al suo interno, della società civile (imponente lo sciopero generale dello scorso 2 Settembre), dei leader di Hamas, dell’Iran, dei ribelli yemeniti, della Jihad, degli estremisti della destra israeliana, dell’Egitto, del Qatar, anche dell’Europa, della NATO, degli Stati Uniti… in cui si dice che si vuole la pace; ma non è molto chiaro che cosa intendano tutti costoro con la parola, perché intanto i negoziati sono ormai una farsa. I rifornimenti di armi invece no, anzi.
Il cardinale Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, intervenendo al Meeting di Rimini di fine agosto, ha tenuto un discorso accurato, teso, tragicamente importante, nel quale ha riassunto la situazione e spiegato come si vive laggiù da mesi, sia dal punto di vista arabo (ricordando che in Palestina-Israele, quanti sono cristiani “locali” sono tutti arabi), sia da quello ebraico. Non c’è pace, non ce n’è nemmeno l’ombra, da nessuna parte. E ha concluso dicendo che lui teme che siano ferme le strade degli uomini e che non rimanga ormai che la preghiera, sicuramente efficace, ma con tempi e modi che sono noti a Dio soltanto.
La pace è un tema grande, forse troppo grande per noi che osserviamo il mondo da dietro le sbarre. Nemmeno qua il clima è pacifico, per le tante rivolte che hanno caratterizzato l’estate, per il sovraffollamento acuito dalla calura, che rende invivibile la galera ed esaspera animi e rapporti, per i troppi morti (i suicidi, pure tra gli agenti; i malati mal curati, gli anziani soli…) e non si trovano molti spunti per parlarne o rifletterci su.
Ma i visi di quei bimbi a Gaza, le prodigiose mani degli aiuti internazionali che portano salute, riaprono la speranza. Una speranza difficile, una speranza piena di ostacoli. Ma solo così si riesce a vivere, là e ovunque.
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