Va ricordato che chi sta in prigione si interessa molto di quanto accade “fuori”. È nostalgia della libertà, è il desiderio di non perdere i contatti, è la volontà di non atrofizzarsi sul proprio particolare. Sta di fatto che la cronaca colpisce, l’eco delle vicende accende discussioni e anche i grandi accadimenti fanno parlare. Durante l’estate due fatti hanno riempito le discussioni: il terremoto in Marocco e l’alluvione di Derna, in Libia. L’interesse per la prima vicenda è più facile da capire: sono molti i marocchini a Opera e alcuni provengono proprio dalle zone disastrate. Hanno vissuto la preoccupazione, l’apprensione, la difficoltà di telefonare ai parenti. Ma anche la partecipazione di tutti.



Meno facile per la Libia, visto che non ci sono libici. È comunque una terra araba e questo un poco spiega il perché dell’interesse, ma sembra ci sia anche dell’altro. Quando la diga di Derna ha ceduto le cronache hanno mostrato immagini impressionanti. Giorno dopo giorno è stata sempre più chiara la dimensione della tragedia, il triste numero dei morti che aumentava, lo sgomento crescente. Anche accenni di risentimento e polemiche per la trascuratezza della manutenzione, per il fatto che là si combatte una guerra fratricida da anni, per la mancanza di uno Stato ormai dissolto. Ma ha prevalso la commozione per le scene di desolazione, che incidono di più visto che Derna era uno dei “lasciti” dell’avventura coloniale italiana di inizio Novecento. Molti nomi di strade erano italiani e rimaneva la chiesa costruita allora: oggi è una moschea, ma il campanile e l’altare erano conservati. Adesso l’abitato è un cumulo di rottami e il bacino del porto è pieno di carcasse d’auto e di macerie, da vestiti, mobili, materassi. Una città cancellata.



A poco a poco però nei discorsi di corridoio sono emersi altri sguardi. Gli aiuti internazionali sono massicci ma Derna è in Cirenaica, territorio controllato da Khalifa Haftar, formalmente in guerra con la Tripolitania, dove risiede il governo libico formalmente riconosciuto. Russia e Turchia su fronti opposti; Egitto, Arabia e Qatar coinvolti. Abbiamo visto in tv le due navi italiane San Giorgio e San Marco sbarcare soccorsi, cibo, medicinali, tende e materiali per accogliere sfollati. Bene. Ma sono stati mostrati almeno cinque guardiacoste di Tripoli e sette gommoni d’altura e centinaia di giovani che sono andati là dalla Tripolitania: sino a poco prima sparavano contro i soldati di Haftar. Oggi tutti lavorano spalla a spalla. Ci sono italiani, algerini, egiziani e tunisini, ma anche 200 uomini dalla Turchia che ha sostenuto militarmente Tripoli contro Haftar: questi oggi accetta l’aiuto turco. Anche i russi sono presenti con un grande ospedale da campo e collaborano con il “nemico” per aiutare l’alleato cirenaico.



Sono così nati molti commenti per trovare un significato politico agli aiuti. Ma guardando bene, sentendosi molto vicini ai sopravvissuti che hanno perso tutto, predomina qui dentro la percezione che loro sono fratelli in una “reclusione” molto peggiore della nostra. Sembra davvero che là, però, stia accadendo qualcosa di profondo: il dolore, il bisogno, la tragedia uniscono e fanno incontrare. Pensare che i giovani delle due fazioni libiche si rimbocchino le maniche insieme per scavare nel fango che intanto si è indurito come pietra, vedere in tv uomini in divisa turca che portano barelle verso un ospedale russo, constatare che ci sono tavoli della Croce Rossa accanto a quelli della Mezzaluna, notare sui mezzi di soccorso le insegne italiane, egiziane, americane, francesi dà da pensare. Ebbene, forse è ingenuità, ma tutto ciò è speranza.

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