Ho ricevuto da un amico il testo del discorso che il Presidente della Repubblica Mattarella ha tenuto durante la cerimonia estiva della “Consegna del ventaglio”, di fronte a un folto pubblico di parlamentari. Il Presidente parla di molte cose importanti, e colpisce il tono sia accorato sia molto fermo con cui afferma e sostiene idee spesso non facili; per esempio a proposito della democrazia e della libertà di informazione, delle spese militari che strangolano le economie di molti, della pace che manca e a cui dobbiamo aspirare. Ovviamente a chi è recluso è arrivata soprattutto la parte finale, là dove Mattarella ha parlato delle carceri, dicendo che sono ormai cadute così in basso da generare “condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza”.



Purtroppo, il Presidente ha drammaticamente ragione. Lui ha fatto riferimento alla lettera (pubblicata su molti giornali e leggibile su diversi siti) che gli hanno mandato alcuni detenuti di “Canton Mombello”, la prigione di Brescia, nella quale descrivono una situazione folle e incredibile (incredibile per i più; tristemente credibilissima per chi fa parte del “pianeta carcere”) ove si trovano celle da 15 persone con un solo gabinetto, edifici che definire fatiscenti è buonismo, assenza di ogni cosa, di ogni supporto, di ogni strumento. Non è la fotografia di qualsiasi realtà carceraria in Italia – qualche carcere è strutturalmente meglio, ad esempio Opera – ma al di là degli aspetti di dettaglio, la lettera ribadisce che il “sistema” è bacato, che non va, che non serve a realizzare quello per cui esiste. Ancora il presidente Mattarella ha detto che le carceri sono “indecorose per un Paese civile qual è, e deve essere, l’Italia”.



Qui si coglie il punto più forte. Mattarella afferma: “Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza“. Indubbiamente, il tono di quell’appello segnala proprio questo: in chi lo ha scritto sembra estinta e spenta ogni attesa, ogni desiderio di cambiamento, ogni aspettativa. Ma se manca la speranza, anche solo quella di un miglioramento pratico, siamo ancora in presenza di una vita? Ovvero, può dirsi “vita” l’esistenza di chi soccombe sotto il peso di una condizione talmente gravosa da escludere ogni prospettiva? Questo è il messaggio che il presidente voleva mandare ai politici, i quali sembra non abbiano molto ascoltato. Pochi giorni dopo, il famoso (o famigerato?) ddl Nordio sulle carceri è stato approvato in Parlamento tramite voto di fiducia, senza discussione alcuna, non apportando alcun miglioramento all’attuale condizione delle carceri. Va detto con chiarezza. Ammesso che vi si intraveda qualche volontà di agire per miglioramenti di lungo periodo (assunzioni di personale, ricerca di spazi in comunità e case di accoglienza, esortazione all’utilizzo delle già previste misure alternative alla detenzione…), non ci sono decisioni, soldi, mezzi per alleggerire il carico qui e ora. Le carceri sono sovraffollate e lo resteranno; i mezzi scarseggiano e scarseggeranno. Quindi non c’è “speranza”. Non è in agenda.



E allora? Allora potrebbe essere utile guardare al cammino che molti reclusi comunque compiono, a volte aiutati da chi si dà da fare, che si tratti di figure istituzionali sensibili (ci sono!) o dai meravigliosi volontari che tanto aiutano. La speranza va cercata “dentro”. Non è un gioco di parole. Non val la pena sperare in cambiamenti dall’esterno; quello che fa la differenza, che restituisce una vita che meriti di esser chiamata così, è la “Speranza” che si alimenta dall’interno della persona. Fatta di aspirazioni “culturali” – espressione intesa molto ampiamente -, di attività materiali che siano d’aiuto a qualcuno, di impegno reciproco tra detenuti nel supportare e sopportare, nell’orientare, nel sostenere.

A Opera, chi scrive ha visto due compagni di strada che ne hanno salvato un terzo che stava per impiccarsi; in molti, avendo qualche disponibilità economica, soccorrono chi non ha un centesimo per la spesa settimanale; c’è anche chi scrive lettere o istanze per coloro che non lo sanno fare, chi gioca una partita a carte con qualche anziano desolatamente solo… insomma, “cura” è la via della Speranza, e funziona. Solo così il tempo della privazione della libertà, che in molti casi è davvero lunghissimo, invece di essere disperato, si fa costruttivo. Un tempo che non diviene dunque “palestra criminale” (ancora parole di Mattarella), ma anzi via di recupero, di reinserimento, di apertura.

Verissimo che l’ambiente non promuove né stimola una simile prospettiva, ma la Speranza lo fa.

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