Che cosa ci si potrà mai aspettare da un incontro di presentazione di un libro? Interesse, probabilmente; anche coinvolgimento, un modo per approfondire qualcosa.
Ma di recente, nella sala di lettura della biblioteca della Casa di reclusione di Bollate, l’occasione ha superato ogni attesa. Il luogo non è grande, ma era gremito perché il nome dell’ospite era famoso: è infatti venuto Alessandro D’Avenia, reso molto noto dal suo primo romanzo: Bianca come il latte, rossa come il sangue (2010), che ha avuto enorme successo, tradotto in 23 lingue, venduto in più di un milione di copie. Ne è stato anche tratto un film, del quale lo stesso D’Avenia ha curato la sceneggiatura. Sì, perché lui, che di “mestiere” è un insegnante di Lettere al Liceo San Carlo di Milano, oltre a essere un romanziere, è dottore di ricerca in lettere classiche, è sceneggiatore, è un teatrante (ha fondato e dirige una compagnia teatrale e anima lui medesimo serate-spettacolo). Averlo dunque nel carcere è stato un evento di per sé.
Però nessuno si aspettava il tipo di incontro che poi c’è stato. D’Avenia è venuto per parlare del suo Ciò che inferno non è (Mondadori, 2014), il libro che ha scritto su don Pino Puglisi, parroco a Brancaccio, quartiere difficile di Palermo, ucciso dalla mafia dei Corleonesi perché dava loro fastidio. Don Pino è stato anche insegnante di religione di D’Avenia nel liceo che lui frequentava a Palermo, lì lo ha conosciuto, lo ha frequentato e il sacerdote lo aveva coinvolto nelle sue attività a Brancaccio, spingendo il ragazzo D’Avenia a diretto contatto con una realtà sociale, culturale, umana, lontanissima dalla sua, anche se situata a poca distanza da casa.
Ma invece di iniziare a dir cose come questa, che pure emergono a poco a poco nel discorso, D’Avenia ha cominciato dicendosi “una persona inquieta”, che “cerca la verità, su di sé e sul mondo”.
Una simile dichiarazione basterebbe, ma non s’è fermato lì. Ha infatti aggiunto, citando Dostoevskij, che intende “morire da vivo”, che cioè non si accontenta di essere annoverato tra gli esseri viventi, ma vuole vivere davvero, che è altra cosa. Ha spiegato che queste idee gli vengono anche dall’insegnamento di quell’uomo – e più ancora, dalla testimonianza – e gli sono rimaste.
Perché, ha aggiunto, lui ha imparato da don Pino che “bisogna” essere felici, termine che non indica un generico star bene, o mancare di guai. “Felice”, il latino felix, significa infatti “dare frutto”. È dunque felice l’albero carico di arance, o la spiga gonfia di chicchi. E può essere felice una persona che sappia appunto dare frutti, che sappia lasciar traccia per quel che dice, che fa, che è.
Don Pino, allora, che è vissuto sempre povero, senza un attimo di requie, in lotta con l’ottusità burocratica di chi non capiva le sue iniziative, alle prese con nemici violenti e spietati, poi morto ammazzato… proprio lui, è stato felice.
Per finire, D’Avenia ha letto una pagina del volume, dal capitolo 32 della II parte, nella quale si elencano le “cinque cose che un uomo rimpiange quando sta per morire”. Ossia: essere vissuti secondo le aspettative degli altri, e non seguendo le proprie inclinazioni; la seconda, aver lavorato troppo duramente, lasciandosi prendere dal carrierismo e dalla competizione; la terza non aver avuto il coraggio di dire la verità; la quarta, non aver trascorso abbastanza tempo con le persone amate; e infine, non esser stati più felici. D’Avenia immagina che anche a don Pino Puglisi, sotto i colpi del mafioso che l’ammazza, si sia presentata questa lista, ma su nessun punto lui ha dovuto aver rimpianti. Mentre D’Avenia legge il passo, ancora si commuove. Molti dei presenti lo seguono, rapiti dall’intensità del brano e dall’autenticità di quell’emozione.
Espressioni tutte che lanciate a un folto gruppo di detenuti in carcere hanno fortissimo impatto. Comprensibilmente: riflettere sulla ricerca della verità, sul senso da dare all’esistere, sulla felicità… e farlo. attraverso il confronto con la vita di un sacerdote santo e umanamente eroico, non può che avere una larga eco. Lo si è capito dall’affollarsi delle domande che hanno quasi sommerso l’Autore, sicuramente felice, perché ha lasciato traccia, ha generato molto frutto.
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