Caro direttore,
le scrivo a proposito dell’evasione dal carcere minorile Beccaria di Milano avvenuta la notte di Natale. Mi permetto di farlo perché frequento il Carcere minorile di Nisida, a Napoli, dove da dieci anni coordino il laboratorio edile, un cantiere di recupero e restauro architettonico nel quale i ragazzi imparano il lavoro di muratore. Non ho quindi particolari titoli e mi permetto di intervenire sulla vicenda solo per il fatto di essere a contatto diretto con giovani che si trovano in istituto di pena per i motivi più disparati: reati contro il patrimonio, la persona, ecc.
Innanzitutto mi ha colpito molto l’attenzione mediatica mostrata per la pur grave situazione verificatasi al Beccaria. Riflettori puntati su sette giovani che, proprio la notte di Natale, sono evasi.
Di che giovani si tratta? L’analisi è fin troppo facile. Storie di devianza che mettono in evidenza i tratti salienti delle periferie urbane nel nostro Paese: la presenza di sacche ampie di disagio sociale, abitativo e scolastico, insicurezza e degrado urbano, problemi culturali e comunicativi, carenza di politiche sociali. In una parola: giovani per cui occorre “buttare la chiave” e luoghi che sono vere e proprie “corone di spine” rispetto ai centri delle città.
Certo, è difficile entrare in rapporto con ragazzi “difficili”. Ragazzi che non si fidano più degli adulti perché magari semplicemente questi ultimi, troppo spesso, hanno girato e girano lo sguardo dall’altra parte.
Nell’esperienza che faccio con i ragazzi di Nisida mi stupisco del fatto che, mentre lavorano, alcuni di loro si sorprendono quando si scoprono capaci di generare qualcosa di bello, lavorando sodo, dedicandosi, appassionandosi al lavoro che viene loro proposto di fare. Cominciano a fidarsi quando si accorgono che ci sono persone lì con loro, proprio in quel luogo/non-luogo, in un tempo/non-tempo, come lo concepiscono loro. Un’azione educativa che parte dalla direzione del carcere, passando per l’équipe educativa, per finire al personale di polizia penitenziaria. Un vero e proprio villaggio dove avviene il passaggio dal “prendere in carico” al “prendersi cura”, un luogo insomma in cui tutti concorrono affinché la libertà sia vista come un punto di partenza e non di arrivo.
In occasione della visita a Nisida del presidente Mattarella, non potendo lui scendere nel nostro cantiere, ci era stato chiesto di preparare dei pannelli con alcune foto del nostro lavoro per mostrarglieli. Avevo chiesto ai ragazzi di scegliere alcuni scatti e di scrivere una frase che descrivesse il motivo della scelta. Uno di loro ha scritto così: “Qui non dormo, non ci sono divani, solo macerie, che ci tocca portare via dalle stanze e dalle grotte, per poi dare nuova vita agli spazi. Mi piace questo fatto di ridare vita a qualche cosa, oggi sono pareti e pavimenti, forse domani tocca a me”.
Tanti quindi parlano dei giovani, pochi sono disposti a soffrire per e con loro. Questa è la vera sfida cui nessuno può sottrarsi.
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