Nella Casa di Reclusione di Opera, l’Associazione In Opera organizza incontri, sempre significativi, che a vario titolo ruotano attorno al tema della giustizia riparativa. Non tanto dal punto di vista accademico e giuridico – anche, ma non è il principale focus dell’Associazione -, quanto piuttosto da quello culturale ed esperienziale, più aderente al bisogno di chi “risiede” in questi luoghi.
Il 2023 s’è chiuso con uno di questi momenti, nel quale è venuto a rendere la sua testimonianza don Antonio Loffredo, parroco del Rione Sanità di Napoli.
Val la pena ricordare che a Napoli, nella ridefinizione urbanistica voluta a inizio Ottocento dal dominio napoleonico sulla città, “la Sanità” è stata tagliata fuori dal resto. Sovrastata da un ponte che l’ha bloccata nei suoi accessi verso Capo di Monte e chiusa, è diventata un ghetto non dichiarato; per ben più di cento anni ha vissuto dentro Napoli come fosse un luogo alieno, tanto che persino la lingua è diversa dal napoletano diffuso. Vent’anni fa arriva come parroco don Antonio e trova il posto privo di tutto, con i bassi pieni di gente, i ragazzini in strada, l’economia sommersa; insomma, tutto quello che ci si aspetta da un ghetto. Ancora oggi alle persone che non sanno che cosa sia successo là, se si dice “la Sanità di Napoli” viene in mente tutto l’armamentario di desolazione, marginalità, abbandono… fino alla camorra.
Invece. Don Antonio si rende conto che lì, proprio lì, c’è un tesoro immenso. È un luogo pieno di bellezza: monumenti e case, vicoli e chiese (più di dieci nella parrocchia) che hanno secoli di storia; e le “Catacombe di san Gennaro”, antichissima cava di tufo che di anni ne ha più di duemila. Un tesoro di cultura buttato via, nel degrado assoluto. Don Antonio lo fa notare, raduna i primi, coltiva il senso del valore di ciò che sta lì, insegna a considerarlo “nostro”, cioè della gente che vi abita. Chiama ragazzi, spesso con problemi alle spalle, conti sospesi, persone che nessuno vorrebbe e a cui non si dà credito. Ma don Antonio sa che possono essere “pietre angolari”, proprio perché scartati. Combatte contro molti freni, che gli vengono dall’amministrazione, dalla politica, anche dai “buoni”, compresi i benpensanti della città o qualche prelato in Vaticano che non comprende che cosa stia facendo. Si scontra anche con quanti dal mondo del crimine organizzato non vogliono che nulla cambi, perché così comandano loro.
In sintesi: le catacombe di san Gennaro oggi sono un sito visitato da più di 200mila persone all’anno che dà lavoro a 50 giovani del luogo, organizzati in cooperativa. Poi ci sono due orchestre (!) con professori e maestri che insegnano ai ragazzini a suonare; ci sono centri culturali, gruppi sportivi, una modernissima palestra per usare la boxe come metodo educativo. Fino allo sviluppo di una rinata economia per i negozianti o i ristoratori che profittano dell’afflusso di turisti e del movimento che ha rotto il ghetto e ne ha fatto un luogo magico. Il miracolo alla Sanità.
Don Antonio nel teatro del carcere di Opera parla e racconta. C’è con lui uno dei suoi “ragazzi”, Calimero, pescato tra Nisida e Poggioreale, che oggi ha una bella famiglia, lavora e dà una testimonianza vivente di quel miracolo. Tutti ascoltano, tutti i presenti partecipano, seguono, riflettono. Più ancora, pare che ciascuno si senta a proprio agio. Don Antonio dice cose grandissime con modi e forme di una quotidianità amabile, che cattura, che coinvolge. I presenti si sentono tutti bene in quelle più di due ore di incontro, nelle quali c’è anche spazio per molte domande su come abbia fatto, su chi lo abbia aiutato, su da dove provenga quest’energia, su quanto sia stato difficile e su quali ostacoli si siano erti a rendere faticoso il cammino. Don Antonio risponde, usando pure qualche frase in napoletano: anche lui è un “ragazzo” della Sanità. I messaggi sono forti, perché non parla male di nessuno, non recrimina, non si lamenta. Nemmeno si loda o magnifica i successi, pur essendoci materia per farlo. Poi dice: “Guaglio’, che volete… io ho cercato, io cerco ancora di fare del mio meglio per dare felicità a qualcuno. Se lo facessimo tutti, che posto sarebbe il mondo!”.
E conclude facendo recitare il Padre Nostro. Quel giorno a Opera si alzano in silenzio i detenuti tutti, Giovanna Musco, presidente dell’Associazione In Opera, alcuni mediatori penali, un’educatrice del carcere che è stata presente, un gruppo di studenti universitari che si occupa di giustizia riparativa, alcuni scout che svolgono volontariato. Anche due agenti di custodia, lì per “garantire sicurezza”, ma presi pure loro da un clima inatteso. Lo recitano tutti. Insieme.
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