Abbiamo visto un vecchio film nel teatro del carcere di Opera: La parola ai giurati, in bianco e nero. Sidney Lumet ancora molto giovane lo girò nel 1957, riprendendo un lavoro teatrale di Reginald Rose il cui titolo originale è: “12 uomini arrabbiati”.
Iniziativa della Camera penale di Milano e di “Extrema Ratio”, associazione di avvocati, con il “Gruppo Trasgressione” che il criminologo Michelangelo Aparo conduce a Opera da moltissimi anni. Una serata con proiezione e dibattito. Molti ospiti esterni è un nutrito gruppo di detenuti, probabilmente scesi in teatro più per cogliere un’occasione di fare qualcosa di diverso che per il film, che non sembrava attraente. Era infatti respingente che la pellicola fosse così datata, realizzata tutta all’interno della stanza dove una giuria del tribunale, a New York, si riunisce per esprimere il verdetto su un ragazzo accusato di aver ucciso il padre. Nessuna azione adrenalinica, nessuna avventura o effetto speciale.
Ma quelli che sono venuti hanno vissuto un momento speciale. Non solo perché il film, che non ha sicuramente bisogno di commenti in questa sede, è molto bello e, anche se “fermo” in quella stanza, sa prendere chi guarda senza concedere tregua. Ma più ancora per il dibattito che ne è seguito.
Sono infatti intervenuti alcuni “esterni” qualificati (professori, avvocati, giuristi, psicologi… tanti), ma poi hanno preso la parola i ristretti che fanno parte del “Gruppo Trasgressione”, persone con un passato turbinoso, molti con un vissuto criminale denso, con alle spalle lunghe carcerazioni, ma impegnati in un cammino di revisione, riscatto e recupero, che si sono messi in gioco, raccontando stralci d’esperienza, cogliendo spunti dalla visione appena conclusa, provando a trarne conclusioni.
Nel film, da un verdetto che all’inizio appare scontatissimo (si racconta che ci sono testimoni, evidenze e c’è l’ambiente di provenienza di quel giovane che lo rendono “sicuramente” colpevole), gradualmente, per iniziativa di un solo giurato interpretato da un grande Henry Fonda, la giuria muta opinione. Si affrontano questioni di enorme peso: che cosa siano davvero la giustizia o la verità, quanto pesi il lavoro degli avvocati, perché il “ragionevole dubbio” impedisce di condannare.
Alla fine, la giuria dei “12 uomini (inizialmente) arrabbiati” assolve il ragazzo, non perché sicura dell’innocenza, ma perché non certa della sua colpevolezza. Applicando il criterio che sarà sempre meglio mettere in libertà un colpevole che punire un innocente.
Meglio per chi? E perché?
Su questo si è discusso nel teatro del carcere: s’è detto che una giustizia rigida non può assolvere bene al suo compito, perché trascura troppe cose. La mera “applicazione della legge” non garantisce il bene e non è detto che basti una condanna per ristabilire la giustizia: in molti casi non è affatto così. Chi giudica – o chiunque detenga un qualche “potere” – deve saper ascoltare, perché la verità si mostra sempre più complessa di come appare; la ricostruzione dei fatti prospettata dal tribunale nel caso del film viene distrutta dalle domande del giurato protagonista, che non fa mai affermazioni, ma chiede, rimanda, fa pensare. Un “metodo” che spinge a riflettere molto.
Va ricordata anche la compassione – o “clemenza” per farne un tema giuridicamente valido, come precisa la filosofa Francesca Rigotti nel volume Clemenza uscito in aprile da Il Mulino, da cui uno dei presenti ha letto uno stralcio intensissimo –, virtù molto trascurata, ma essenziale al vivere associato dell’umanità.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.