Ci vuole un minimo di spiegazione: Mabul non è un termine ordinario.
La colpa è del filosofo Davide Assael che, complice l’Associazione In Opera ha tenuto nel carcere di Opera un ciclo di incontri e lezioni su temi biblici. Eravamo già partiti con lui nel 2022 da una lettura inconsueta delle vicende di Caino e Abele nelle quali abbiamo esplorato il fatto che è proprio la “fratellanza”, ogni vicinanza, a generare conflitto e divisione: si litiga con i fratelli all’inizio e da lì l’abitudine a confliggere attraversa la vita. Avevamo poi letto, nell’esperienza di Esaù e Giacobbe, la possibile strada della mediazione, della riparazione, che costa immani fatiche, ma c’è; su quello si era innestata la collaborazione con la professoressa Claudia Mazzucato che in Università Cattolica insegna Giustizia riparativa, che ci aveva molto arricchiti su quel tema. Poi Assael è tornato in estate, vincendo afa e poca (nostra) voglia, per cominciare l’argomento che è ripreso sabato 21 gennaio scorso: il Mabul, appunto.
La parola è ebraica. Ed è quella che normalmente si traduce come “diluvio”. Noè e l’Arca, gli animali salvati a coppie, sono cosa nota. Meno noto sicuramente, se non a chi conosca bene la lingua, è che Mabul non significa diluvio, ma piuttosto ribaltamento, rovesciamento. È “il sopra che va sotto, l’alto che diventa basso”, come spiegava Assael. Proprio così: nella Bibbia, il Mabul è un momento di rinascita e di ricominciamento (dopo il Mabul il mondo è lavato, pulito e pronto a un inizio) e ciò che conta in quella vicenda è il messaggio forte che per cominciare qualcosa di bello, di nuovo, di duraturo, spesso – forse sempre – bisogna ribaltare, bisogna far sì che l’alto diventi basso, che il sopra vada sotto.
Partecipando a questi incontri si respira aria buona, aria di speranza; ed è proprio su questo passaggio che lasciano la traccia più profonda. Parlare di “speranza” è arduo. Lo è per chi sia recluso, ovviamente, dove il termine infatti ha scarsa circolazione. Ma anche per chi sia libero sovente “sperare” non va molto oltre le questioni quotidiane, gli aspetti legati al lavoro, alla salute…
Ma la speranza dovrebbe essere – è – ben altro. Anche quando intorno tutto sia buio, quando ogni via sembri preclusa, persino quando il gravame del giudizio altrui pesi come una montagna e tolga il fiato, quando l’ingiustizia eriga muri apparentemente invalicabili, vale la pena di ricordare una diversa prospettiva, quella di San Paolo: “Il Dio della Speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace” (Rm 15,13). Purtroppo ci sono mille situazioni in cui dire “gioia e pace” sa di presa in giro e sembra che il Dio della Speranza abbia poco a che spartire con la realtà.
È lì che serve un Mabul. Lì si coglie la necessità di un totale ribaltamento di prospettiva e che quel rovesciamento è buono e necessario. Come il Mabul raccontato nella Bibbia non è un “castigo” ma un rilancio, al medesimo modo e molte volte occorre trovare la via per rilanciarsi. Un’intenzione che si sostiene di volontà e di pazienza, le medesime che hanno concesso a Noè e ai suoi di vivere dentro il Mabul e arrivarne alla fine, realizzando quel nuovo inizio simboleggiato dall’Arca. Un messaggio incoraggiante: è l’Arca che ce la fa, alla fine del Mabul.
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