C’è la guerra in Europa. Così vicina a casa: chi lo avrebbe detto, chi lo avrebbe pensato, qui e ora, la guerra.
Anche ammettendo che non si estenda oltre l’Ucraina – non è affatto detto che non possa succedere – non è lontana. Ci coinvolge al di là del fiume di immagini che ci insegue dalle televisioni, con scene raccapriccianti di tristezza indicibile. Arriva fin dentro il carcere, dove se ne fa materia di discorsi e di commenti, anche di giudizi. Perché persino chi il giudizio l’ha subìto, alla prima occasione si mette a giudicare e spesso senza appello: i russi, Putin, ma gli ucraini, la Nato, l’Unione Europea, i politici…
Però non succede solo questo. Tutti quei profughi, quelle donne in fuga con i bambini, quelle famiglie sradicate e disperse, quegli anziani, le code di gente in attesa per comprare cibo o per andarsene scappando, per entrare in un ospedale o in un rifugio, hanno fatto breccia: non siamo ancora assuefatti, evidentemente, a simili “spettacoli” ed è una cosa buona.
Così, con alcuni compagni di strada ci siamo chiesti in che modo potessimo dare una mano. Ci era venuta l’idea di una raccolta di soldi per donarli poi a uno dei molti enti che si stanno dedicando all’assistenza dei rifugiati. Ma la gestione del denaro in un ambiente come il carcere è difficoltosa per tante ragioni organizzative.
Non ci siamo fermati. Noi, che siamo i “cattivi”, parola che nelle sue origini significa proprio “prigionieri” e che da quel significato è poi approdata al senso di “malvagi”, in verità abbiamo e coltiviamo assai di più di quanto l’etichetta possa far pensare.
“Dobbiamo fare qualcosa!”, si sentiva non raramente nei primi giorni di guerra. “Ma cosa?”. “Ci hanno già detto no”, “non possiamo fregarcene”, “ma cosa vuoi che gliene importi?”, “eppure bisogna muoversi”… Ne parlavamo tanto e a ben guardare già questo è un piccolo miracolo: chi sta in galera tutto sommato è tagliato fuori. Dicono: forse, non è così.
L’idea è arrivata lentamente: provare a fare una raccolta di cibo, come è stato prima di Natale. Occorreva chiamare il Banco Alimentare e coinvolgerli in questa “colletta straordinaria”, come abbiamo cominciato a chiamarla tra noi. Ci siamo rivolti ai volontari di Incontro&Presenza con la nostra proposta, forse stravagante. Non sapevamo se sarebbe stato possibile, nemmeno se fosse il caso di chiederlo: chissà in che cosa era impegnato il Banco, chissà se avrebbe avuto il tempo e le forze per ricevere il nostro piccolo contributo.
Ed ecco, il secondo miracolo in pochissimi giorni: il Banco Alimentare si è fatto sotto, “quelli” di Incontro&Presenza si sono dati da fare, la direzione ha accolto l’iniziativa, proprio vedendo che era una richiesta che partiva dall’interno e l’ha approvata. “Dobbiamo fare meglio che a Natale”, pare abbia detto il direttore incoraggiandoci a essere generosi. In un attimo gli uffici dell’Istituto si sono attrezzati e hanno distribuito i moduli ad hoc su cui noi, detenuti forse non così “cattivi”, doneremo generi alimentari per i profughi che dall’Ucraina arriveranno in Italia.
Mentre scrivo, non sappiamo quanto riusciremo a concretizzare, speriamo che sia tanto perché ci piacerebbe sostenere gli sforzi che si stanno compiendo altrove. Ma fosse anche poco, per noi sarà molto: qui dentro il dolore ha trovato orecchie capaci di ascoltare. Quei rifugiati hanno amici anche qui e noi li guardiamo allo stesso modo, sono fratelli tutti. Non sarà mai poco.
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