Cento morti e mille feriti. E migliaia di persone in fuga. È il tragico bilancio delle vittime della città di Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, conquistata dal gruppo M23, organizzazione paramilitare sostenuta dal Rwanda. Un blitz in un’area importante per le sue risorse naturali, soprattutto per il coltan, il minerale che ottimizza il consumo di energia nei telefonini e in tutti gli strumenti hi-tech. La regione è al centro degli interessi delle grandi aziende del settore, così come di Cina e USA, questi ultimi impegnati, insieme alla UE, nella realizzazione del corridoio di Lobito, una grande infrastruttura ferroviaria. Le risorse minerarie, insomma, racconta Lorenzo Timpone, responsabile Paese di AVSI in Congo, sono il vero motivo di questo ennesimo conflitto che sconvolge l’Africa.
Perché l’M23 ha deciso di attaccare Goma?
La matrice è sempre quella economica, il controllo delle risorse naturali del territorio. L’M23 controlla da anni le zone delle miniere nel Nord Kivu. Goma era stata accerchiata, ma non pensavamo ci fosse intenzione di prendere la città, perché è difficile da controllare, è grande e pensavamo che non fosse considerata di interesse strategico.
Questa, come molte altre in Africa, è un’area inquieta da decenni: ci sono strascichi degli scontri passati?
Il Rwanda si rifà ancora alle vicende del genocidio del 1994, degli scontri hutu-tutsi, e giustifica lo sconfinamento con la scusa di andare a difendere le comunità tutsi presenti in Congo. Anche se poi i ruandesi dicono che l’M23 è autogeno congolese. Anche diversi report dell’ONU, però, riferiscono che è supportato dall’esercito ruandese. Il Rwanda partecipò alla destituzione di Mobutu e prese il controllo di Kinshasa. Poi però i ruandesi furono cacciati e non lo hanno mai digerito.
La vera ragione della guerra, comunque, rimangono le risorse naturali di cui è ricca la regione?
Parliamo principalmente di coltan, columbite e tantalio, di cui nella zona c’è grande concentrazione. Nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la ministra degli Esteri congolese Therese Kayikwamba Wagner ha detto che il business si aggira attorno alle 150 tonnellate estratte a settimana.
I ruandesi agiscono per conto di qualche Paese straniero?
Ci sono interessi privati, ma sono talmente tanti che non si riesce a individuarli. Parliamo della produzione di microchip, quindi di imprese di Taiwan e cinesi, come di Apple e Microsoft. Il business è business.
Cosa fanno le grandi potenze?
La Cina ha sviluppato una presenza forte in Africa, in competizione con gli USA. Gli americani stanno spingendo per il corridoio di Lobito (una linea ferroviaria di 1.600 km che punta a collegare lo Zambia con l’Angola, sull’Atlantico, nda), mentre la Cina ha già uno sbocco nel Kenya che le permette di collegarsi con l’Oceano Indiano. Entrambi i Paesi, quindi, hanno interesse a controllare le risorse congolesi, ma non è dimostrato che abbiano collegamenti diretti con i ruandesi.
Come funziona l’approvvigionamento del coltan?
Tante imprese private ordinano commesse nell’ordine di grandezza delle tonnellate, affidandosi a un intermediario che negozia con il gruppo armato che presiede a una certa area. Il minerale viene trasferito attraverso le colline di Rubaya, dove ci sono la maggior parte delle miniere. In occasione di un servizio di Alberto Magnani del Sole 24 Ore, abbiamo parlato con i gruppi armati locali dei wasalendo e con i minatori: hanno raccontato che il trasporto avviene alla luce del sole, con veicoli di fortuna, attraverso il territorio del vulcano Nyiragongo, il parco nazionale del Virunga, fino a Rutshuru, headquarter dell’M23, alla frontiera con il Rwanda.
Quindi l’M23 già controlla una parte consistente delle risorse minerarie e vorrebbe controllare anche quelle in Congo?
Sì. La situazione è precipitata dopo il cambio dell’amministrazione americana, anche se, appunto, nessuno pensava a un attacco a Goma, città dove ci sono soldati di tutti i tipi: l’esercito regolare, il gruppo di Horaciu Potra, legato ai francesi, con i mercenari rumeni e bulgari, la SADC, la Comunità degli Stati dell’Africa del Sud, e infine i gruppi wasalendo. La città l’ho vissuta per tre anni e mezzo ed era militarizzata.
Come hanno fatto i ruandesi a conquistarla?
L’esercito congolese è mal organizzato, con soldati mal pagati, demoralizzati, persone che vengono da altre province, dove si parlano lingue diverse, e non si sentono parte della stessa nazione.
Quando avete abbandonato Goma, qual era la situazione in città?
C’erano bombe che cadevano molto vicine alle nostre abitazioni, si sentivano forti esplosioni. Appena sono state prese Sake e Kibati, ci siamo mossi: abbiamo una lunga esperienza nella zona, che ha segnato la nascita di AVSI 50 anni fa, e abbiamo preferito andarcene.
Le persone con cui siete in contatto a Goma cosa raccontano ora?
Ieri hanno trovato un ordigno inesploso nella casa degli espatriati italiani di AVSI. Il figlio di un nostro dipendente è stato colpito da un proiettile vagante. Ci sono famiglie italiane, nostre amiche, fuggite in fretta e furia. Uno dei nostri contabili ci ha detto che la strada del nostro ufficio, quella di tutte le ONG e del più grande hotel di Goma, è controllata dall’M23. A nord, tuttavia, c’è ancora qualche sacca di resistenza.
AVSI che tipo di attività svolge a Goma?
Principalmente attività d’emergenza, legata all’educazione: ricostruzione delle scuole, formazione di insegnanti, recupero di bambini dropout che hanno lasciato le lezioni. Ci occupiamo di trattamenti di malnutrizione acuta e moderata e prevenzione della malnutrizione. Poi abbiamo realizzato diversi progetti di elettrificazione rurale con il ministero dell’Ambiente italiano, in collaborazione con il ministero dell’Ambiente congolese: centrali a pannelli fotovoltaici, un po’ di idroelettrico, elettrificazione rurale in alcune zone.
AVSI si occupa storicamente di educazione, com’è la situazione dei minori in Congo?
Il Nord Kivu, prima di questa situazione, contava un milione e 900mila sfollati interni, che premevano su Goma, riuniti in campi in cui venivano raccolti gli sfollati, senza che UNHCR, UNICEF e altri avessero i soldi per rispondere all’emergenza: i fondi che si stanno dedicando al Congo negli ultimi anni sono sempre meno. La gente era nel fango, senza tende, senza acqua o elettricità, senza niente: una situazione di degrado totale. E queste persone, quando arrivavano in città, occupavano degli stabili, creando un disagio nella popolazione locale, in una situazione di aumento della criminalità, servizi che non funzionano, crescita del lavoro minorile, dei matrimoni precoci.
Qual è lo scenario più probabile per Goma? L’M23 può riuscire a gestirla?
Potrebbero farcela, non è impossibile. Il Rwanda è vicino e possono essere supportati. Non so quanto sia nel loro interesse rimanere. Bisogna capire anche chi c’è veramente dietro di loro. Le pressioni della comunità internazionale potrebbero indurli ad andarsene. Noi a Goma abbiamo il nostro headquarter, ora dobbiamo capire quando potremo riprendere la nostra attività.
A Kinshasa sono state prese d’assalto, tra le altre, le ambasciate di Francia e Belgio: anche nella Repubblica Democratica del Congo c’è un sentimento antioccidentale?
Sì, è presente. La MONUSCO, la missione dell’ONU per la stabilizzazione del Paese, è stata identificata per tanti anni come la forza che poteva realmente risolvere i problemi dell’area, ma ha un mandato difensivo e non ha fatto più di tanto.
Il segretario di Stato USA Marco Rubio ha chiesto il ritorno alla normalità. Nella comunità internazionale chi preme in questa direzione?
La Francia ha detto apertamente al Rwanda di ritirarsi, gli USA lo stesso e velatamente lo hanno fatto anche Cina e Russia.
Forse perché per le risorse della regione fanno comodo a tutti ed è meglio che tornino accessibili?
Ormai sappiamo quanto l’hi-tech oggi faccia politica: chi ha in mano il mercato tecnologico riesce a tirare i fili.
(Paolo Rossetti)
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